STORIE DI NATURA

PENSIERI, IMMAGINI E PAROLE NATI DURANTE IL SILENZIO DEL LOCK-DOWN, QUANDO IL TEMPO HA RALLENTATO E LO SPAZIO HA CAMBIATO FORMA. PER TUTTI.

Una cara amica, leggendo i miei racconti, li ha definiti storie di "natura resistente". La natura lo è di certo, spero possano esserlo anche queste parole che la raccontano.

COME NEVE DI MAGGIO

Nell'erba umida che ondeggia al vento, il capriolo fiuta una presenza. E' una sera di maggio e i semi piumati dei pioppi nevicano nei boschi, si appoggiano delicatamente sui prati, in silenzio, senza peso.

L'ANGELO BIANCO

Le sue ali sfrangiate di piume, tra l'erba sfugge la luce; immobile e leggero, il minuscolo angelo bianco attende la notte.

Pterophorus pentadactylus, lepidottero notturno noto come "falena bianca".

SU UN FIORE

Oggi: pieride del biancospino, ragno salticide e coleottero cerambice sullo stesso fiore. Assembramenti naturali consentiti.
#fase2

FASE 2

Erano uova, ora sono minuscole cince implumi. Su di loro veglia sempre la mamma. #fase2

UNA STELLA TRA I CAMPI

Si chiama barba di becco violetta (Tragopogon porrifolius), una "banale" pianta biennale che cresce nei prati di pianura e collina. Uno dei tanti gioielli che passano inosservati. Eppure, a ben guardare, pare quasi una stella viola nei campi di primavera.

FUOCO NELL'ACQUA

Chi pensa che il fuoco muoia nell'acqua, ancora non conosce l'occhio fiammeggiante del moriglione.

LUPI DI FIUME

Dopo due mesi, ieri sono tornato a camminare dove camminano i lupi, i "miei" lupi: Vincenzo e Rossella, i loro cuccioli, gli helper. Quei lupi di cui da due anni studio la storia, gli spostamenti, la soap di famiglia come una serie TV; quei lupi di cui ho vissuto e condiviso la gioia delle nuove nascite e i drammi della morte. Ieri di nuovo ero su quei sentieri calpestati migliaia di volte: di giorno sterrate per corridori e biker, di notte oscure piste di caprioli, tassi, istrici e lupi. L'ultima volta il bosco era spoglio, intrico di rami spinosi; il fiume algido e muto di fine inverno. Li ho ritrovati profumati di biancospini, imbiancati di fiori d'acacia, avvolti dal verde nuovo delle foglie e dal canto della capinera. L'usignolo gorgheggia dal fitto dei cespugli, da poco giunto dopo il lungo viaggio iniziato nella foresta equatoriale africana. La primavera è qui ed è forte, e delicatamente mi accarezza col suo sole tiepido e limpido. Si va lontano con lo sguardo, da una parte i monti d'Appennino, dall'altra la pianura di Po. Questa autostrada d'acqua è la via dei lupi del Taro: il fiume è corridoio liquido che unisce terre lontane e diverse, fatte di boschi bui e pianure luminose, di greti assolati e dolci colline.

Dopo due mesi sono tornato a camminare dove camminano i "miei" lupi e non mi sono sentito ospite, ma coinquilino. L'ospite entra, magari educato e silenzioso, si ferma poco e se ne va, perché quella non è casa sua. Non dà il suo contributo per rendere la casa accogliente, non ha il tempo di conoscere gli altri inquilini, di ascoltarne la voce, di sentirne i pensieri, di annusarne i profumi. L'ospite non ha responsabilità. Per questo non siamo ospiti della Terra, masiamo coinquilini di milioni di altre specie.

Dopo due mesi sono tornato a camminare dove camminano i "miei" lupi e, a parte la stagione, nulla là fuori è cambiato: Vincenzo, col suo orecchio piegato, come ormai da anni ancora guida la sua famiglia nelle cacce notturne, lungo sentieri sconosciuti; insieme sfiorano leggeri il letto del fiume, ululano alla luna e alla vita nelle notti d'estate. Là fuori nulla è cambiato. Per noi tutto è cambiato.

Quando tra pochi giorni torneremo a camminare per prati e boschi, ricordiamoci che non siamo solo ospiti, ma molto di più: siamo coinquilini di una casa comune.

L'OFRIDE

Oggi sul mio sentiero t'ho incontrata, piccola perla di prateria. Mi sono chinato a rimirare le tue forme, i tuoi colori, la tua essenza delicata. Ofride di Bertoloni, fragile orchidea di casa nostra.

LA RAGANELLA

La raganella, minacciata dalla perdita di habitat, è un anfibio delicato e sempre più raro. Un minuscolo animale, nascosto alla luce del giorno, attivo e chiassoso nell'oscurità. Estrema bellezza racchiusa in una moneta da 2 euro.

DUE SORRISI

Luna e Venere, due sorrisi nella sera di vento. Una linea invisibile le unisce in verticale: che sorridano di noi, del nostro continuo affannarci? O forse chiacchierano d'altro, parole di comete, discorsi di stelle e spazi infiniti? Mai lo sapremo, ma non importa: al nostro sguardo sono luccicanti sorrisi nel cielo.

SU UN FIORE DI CAMPO

Prima è il fiore, poi l'ape, e solo in ultimo scorgi il ragno granchio, maestro di camuffamento. In altre parole prima è la bellezza, poi l'operosità ed infine, nascosta, la morte. L'estrema sintesi in un fiore di campo che ondeggia nel vento; semplicemente LA VITA.

CASSANDRA

Ogni primavera ci diamo appuntamento, d'anno in anno. Questa volta rischiavo di perdere l'incontro; ti ho raggiunta di rincorsa, nel prato arido lungo il fiume, prima dell'ultimo volo, fragile farfalla d'aprile. Già scritto nel tuo nome il domani sconosciuto. Zerinzia cassandra.

I GIORNI DELLA TERRA

Nel Giorno della Terra una mamma cinciallegra riscalda e protegge le sue uova, il suo tesoro, la sua vita che si protende nel tempo e nello spazio. Ieri era il volo gridato dei rondoni sui campi, l’altro ieri la risata del picchio verde, due giorni fa le acrobazie dello scoiattolo, prima ancora, in quelli che erano giorni qualunque, è stata la pervinca blu mare, una ruvida e saggia corteccia di quercia, gli occhi d’ambra del lupo... E domani? Forse sarà il temporale o un battito di farfalla, o chissà… L’unica certezza è che ogni giorno è il giorno della terra.

IL COLORE DEL FALCO

La stagione delle piogge iniziava nell’emisfero meridionale, sulle coste umide e verdi del Madagascar, ma Ru non l’avrebbe incontrata. Era ormai pronto per partire. Nelle ultime settimane aveva mangiato parecchio ed era ingrassato un po’: era una normale variazione fisiologica in cui incorreva prima di ogni partenza. Le energie richieste dalla traversata sarebbero state enormi e non avrebbe potuto fare molte soste per rifornirsi e riposare. Doveva andare, senza indugio. Giungere a destinazione prima degli altri gli avrebbe riservato la possibilità di scegliere le nicchie più nascoste e riparate dai venti e dai predatori, là sulle ripide falesie a picco sul Mar Egeo, dove era nato meno di un anno prima. Le sue ali erano forti e agili, ma gli oltre 7mila chilometri di cielo da coprire non erano uno scherzo nemmeno per un giovane Falco della Regina in piena forma: innanzitutto avrebbe attraversato i 500 chilometri del Canale del Mozambico per raggiungere la terraferma. Da qui avrebbe risalito le coste orientali dell’Africa, passando dalle foreste pluviali della Tanzania alle aride savane prima del Kenya e quindi della Somalia e dell’Etiopia, costeggiando il corallo del Mar Rosso fino alle sponde del Mediterraneo, che avrebbe sorvolato fino a quel mucchietto di isole sparpagliate nel blu del mare di Grecia. Sempre se tutto fosse andato bene: se i venti settentrionali non si fossero opposti, se avesse superato temporali di pioggia e fulmini, se le tempeste di sabbia non lo avessero raggiunto; in quel malaugurato caso avrebbe dovuto cavarsela magari riparandosi su qualche rado albero nei deserti eritrei. Aveva compiuto quel lungo viaggio l’autunno precedente, guidato dagli altri più anziani di lui e dall’istinto della sua specie, che lo spingeva a volare su quelle rotte che i suoi antenati avevano scoperto e perfezionato in milioni di anni e migliaia di generazioni. Scendeva la sera sul Madagascar ed una sottile falce di luna inseguiva il tramonto, quando Ru si staccò dalla grande chioma dove aveva riposato, nascosto dal caldo sole tropicale. Ora si librava in aria leggero. La migrazione era cominciata.

Tai era fiera della sua bellezza, del suo portamento elegante, soprattutto in volo. In particolare andava orgogliosa del suo piumaggio bruno-nerastro, lucido e levigato, che ricopriva per intero la sua figura snella ed aggraziata. Sapeva che solo un falco su quattro poteva vantarsi di quella colorazione scura omogenea, mentre tutti gli altri si dovevano accontentare del solito piumaggio chiaro su testa e ventre, scuro solo sulle ali. Non le erano mai stati simpatici tutti quei banali falchi chiari e così la sua cerchia ristretta di amici era limitata ai pochi che potevano vantarsi di avere il piumaggio scuro, proprio come lei. Aveva però la testa sulle spalle ed era perfettamente consapevole che un bel piumaggio senza forza e resistenza non sarebbe servito a nulla in vista del grande volo verso nord. A dispetto della maggior parte dei Falchi della Regina che avevano trascorso i mesi invernali in Madagascar, lei, insieme a molti altri della sua specie, aveva deciso di fermarsi sul continente, sulle coste del Mozambico, forse un po’ meno ricco di cibo, ma la dieta a base di succosi grossi insetti volatori l’aveva soddisfatta e l’aveva fatta crescere forte e sana. Era il suo primo inverno e l’aveva superato con una certa disinvoltura, seguendo i suoi genitori, entrambi scuri - fatto non usuale - prima nel viaggio verso sud e poi nei siti di svernamento. Erano stati loro a spiegarle il perché del nome della sua specie, così nobile e importante: pare che molto tempo prima, in quello che nel tempo degli umani era il XIV secolo, sull’isola di Sardegna vivesse una regina, Eleonora d’Arborea, la quale emanò un codice di leggi tra le quali un articolo vietava la caccia dei falchi ed il prelievo dei nidiacei. Così oggi quel nome, Falco della Regina, Tai se lo sentiva cucito addosso. Tanto più che in molte lingue degli uomini quella saggia regina viene ancora oggi ricordata nel nome del rapace: Eleonora’s Falcon, Faucon d'Éléonore… Falco eleonorae nei testi scientifici.Ora dei suoi genitori aveva perduto le tracce: era un falco adulto e doveva seguire la sua strada, era giusto così. Il vento era quello giusto: insieme ad un piccolo gruppo partì verso nord.

Non appena Ru la vide arrivare dal mare, capì che era lei e comprese il senso del viaggio. Le andò incontro, lanciandosi dalla scogliera. Erano una decina di falchi, ma lui aveva occhi solo per lei. Le si avvicinò emettendo quel “chiù chiù chiù chiù” acuto e affilato di eccitazione e felicità. Non l’aveva mai vista prima: forse faceva parte della popolazione che svernava in Mozambico; non la ricordava nemmeno l’autunno precedente su quelle stesse falesie dove si trovavano ora, quando aveva da poco spiccato il volo. Eppure doveva essere nata lì, se vi era tornata. Il richiamo di casa, quello che viene detto filopatria, è impresso con forza nel DNA. Ma dove fosse stata sino a quel momento non importava. Ora era lì e lui doveva conquistarla. Iniziarono a volteggiare nel cielo, poi a precipitare giù verso il mare finemente increspato della prima estate, luccicante di onde e riflessi. Le ali appuntite vorticavano e sfioravano rocce e acqua, si toccavano tra loro per poi allontanarsi e ricongiungersi nuovamente in una spirale di vertigine, da restare senza fiato. Il loro volo era una danza all’unisono, un intreccio di cabrate e picchiate a disegnare scie invisibili, dipinti unici che mai prima erano apparsi in cielo. Ogni volo è unico, ogni rotta è diversa dalle altre.

Tai l’aveva notato da lontano. Era stanca per il lungo viaggio, ma quel giovane falco dal petto possente e dallo sguardo sicuro l’aveva attratta. Era il più bel Falco della Regina che avesse mai visto, e soprattutto volava splendidamente. In poche ore le aveva portato e donato due prede a dimostrazione della sua abilità nella caccia. Le era bastato poco per convincersi che Ru poteva essere il compagno giusto per mettere su nido e famiglia. Ormai passavano quasi tutto il tempo insieme. I momenti più belli e intimi erano quelli serali, quando trascorrevano l’ultima luce in caccia di cicale sopra le fitte pinete dell’isola: più che una caccia era una giostra, vista l’abbondanza di prede, che consumavano direttamente in volo, come pochi altri rapaci sanno fare. Decine di falchi volteggiavano nella sera, ma per Tai esisteva solo Ru e per Ru esisteva solo Tai.

Trascorsero così gran parte dell’estate ed ormai era tempo di fare sul serio. Il grande evento stava per iniziare: miliardi di piccoli uccelli e la loro inesperta progenie stavano partendo dall’Europa alla volta del Sud e dell’Africa per trascorrere l’inverno. Con i loro pochi grammi di peso avrebbero attraversato il Mar Mediterraneo, volando sul mare. Alcuni di loro, stanchi e provati dal viaggio, si sarebbero fermati sulle isole per riposare e nutrirsi. Era quello il momento dei falchi: per un paio di mesi avrebbero cambiato dieta, mettendo da parte gli insetti come cicale e libellule, a favore dei piccoli uccelli, molto più grandi ed energetici per nutrire i loro piccoli, che attendevano affamati nel nido sulla scogliera. I Falchi della Regina che pattugliano la costa come vedette, creando un muro invisibile ma quasi invalicabile, e che improvvisamente, in piccoli gruppi, si lanciano su puntini invisibili che giungono dal mare, esibendosi in acrobazie che sfidano gravità e leggi dei corpi, è uno degli spettacoli più incredibili a cui si possa assistere a fine estate sulle falesie di isole remote. Ru e Tai lo sapevano e così trasformavano quei voli da semplici momenti di caccia in istanti di pura bellezza.

Erano ormai trascorse molte settimane dal loro primo volo insieme. Mentre le loro uova giacevano al sicuro di una piccola sporgenza a picco sul mare ed i due prossimi genitori stavano vicini affacciati sul vento e sul sale, Tai guardò Ru e si accorse del suo piumaggio: “Ru, le tue piume… sono chiare.” Disse stupita, più a se stessa che al compagno. “Sì, e tu sei scura, e bellissima.” Rispose Ru, dolcemente. Dopo pochi istanti i due si libravano leggeri e silenziosi nel cielo della sera, inno al volo e alla libertà. Uno chiaro ed uno scuro: erano due magnifici Falchi della Regina.

Un falco della Regina forma chiara sulle falesie dove nidifica

Un falco della Regina volteggia leggero

Una coppia di falchi: uno scuro ed uno chiaro. Che siano Tai e Ru?

Tramonto sull'Egeo, terra dei falchi della Regina

I 7000 chilometri che separano il Madagascar dal Mar Egeo, rotta dei falchi della Regina

GATTI DI CAMPAGNA

Passeggiamo tra prati, boschi e laghetti con passo felino.

LO SPIRITO DELLA MONTAGNA

Camminavamo in tre. Sotto gli scarponi chilometri e neve. E neve intorno, a ricoprire l'intero anfiteatro di pendii e pareti rocciose, ad ammantare la vista di bianco. Anche il cielo color latte nel mattino di gennaio. Il cuore dell'inverno era silenzio, solamente un lievissimo respiro di brezza e solitudine. Lo sguardo muto sempre in su, nell'attesa. E poi finalmente eccolo, il re che è aliante delle cime, signore delle correnti. Le immense ali a governare venti e bufere, a disegnare scie invisibili tra creste e dirupi. Un sorvolo rapido a bassa quota, senza timore. Poi un altro passaggio, di ritorno, uno sguardo sugli uomini. Un saluto, come sapesse che eravamo lassù per lui. Il gipeto, spirito della montagna.

MIMETISMO, OVVERO L'ARTE DI IMITARE, MA ANCHE DI INGANNARE E DI CONFONDERE.

NASCONDERE L'OMBRA. Uno squalo, un'orca , un pinguino, una berta minore (uccello marino): oltre a vivere in mare, cos'hanno in comune questi animali così lontani dal punto di vista sistematico? Dorso scuro, ventre chiaro. E che se ne fanno? Alziamoci in cielo e osserviamoli dall'alto: il dorso scuro confonde la loro forma contro il mare blu; ed ora immergiamoci sott'acqua e guardiamo in su, verso la superficie: il ventre chiaro renderà difficile l'avvistamento della loro sagoma nei riflessi chiari e luminosi. Questo accorgimento è detto "nascondere l'ombra" e accomuna moltissime specie acquatiche, sia predatori che prede, dandoci modo di conoscere un altro importante concetto, la convergenza evolutiva: specie appartenenti a gruppi sistematici molto diversi (pesci, mammiferi, uccelli...) hanno sviluppato in modo indipendente ed in tempi diversi la stessa "arma" che ne favorisce la sopravvivenza ed il successo riproduttivo. Insomma, se una strategia funziona, state pur certi che verrà utilizzata da molti. (foto dal web)

OCCHI E TESTE FINTI. Buh!!! E' quel che diciamo quando vogliamo ironicamente spaventare qualcuno. Ecco, immaginiamo che molti animali si siano inventati dei modi per fare "buh" ai loro predatori, cercando di guadagnare così quei pochi istanti necessari per disorientare il nemico e darsi alla fuga. Un sistema diffuso in natura è quello di voler apparire per un momento qualcun altro, spesso qualcosa di grosso e che metta paura. Per esempio il bruco della comune farfalla nordamaericana Papilio troilus ha in prossimità del capo due grosse macchie che a tutti gli effetti sembrano occhi di un animale molto più grande. La medesima strategia viene adottata nello stadio adulto da molte altre farfalle e falene (tra cui la Saturnia pavoniella, diffusa nel nostro Paese), sulle cui ali compaiono delle imponenti macchie ocellari, talvolta così ben architettate da simulare lo sguardo di un rapace, spesso un gufo. Altre farfalle, come le nostre comuni Podalirio e Macaone, fingono di avere un paio di antenne accompagnate da un occhio sulla parte posteriore delle ali, così da spingere il predatore ad attaccarle in quel punto, non vitale: la farfalla può così fuggire, con le ali rotte, ma viva. Quindi in molti fanno "buh", ma riesce meglio se ci si camuffa un po'. (foto dal web; Podalirio foto E.Fior)

MIMETISMO DI COMPORTAMENTO. Poi c'è chi, oltre ad una livrea che imita l'ambiente, assume un comportamento tale da farlo sembrare parte del suo habitat. Il tarabuso, un airone in Italia presente solo in inverno, vive quasi sempre nascosto nelle paludi ricoperte da canneto: se in allarme, invece di fuggire, si smagrisce il più possibile, punta il becco verso l'alto e ondeggia leggermente, proprio come una canna al vento. Che dire di molti bruchi della famiglia dei Geometridae (quelli, per intenderci, che si muovono a compasso)? Questi già sono quasi identici a minuscoli rametti, per di più si aggrappano alle piante in modo tale da sembrarlo ancor di più. Qualcun altro invece utilizza la luce: alcune lucciole del genere Photuris, le femmine in particolare, lampeggiano per attirare i maschi della loro specie. Ma, se lì attorno passano maschi di altre specie, si trasformano in femmes fatales: mutano repentinamente la frequenza del segnale luminoso imitando quello delle femmine delle altre specie, attirando i maschi estranei e predandoli. Si inganna per scappare, ma anche per mangiare. (foto dal web; foto Geometridae Carlo Galliani)

MIMETISMO CRIPTICO. E' il più classico dei mimetismi, quello a cui associamo comunemente il termine stesso: assumere colore e forma tali da rendere il soggetto invisibile nell'ambiente in cui si trova. Gli esempi nel regno animale sono ovunque ed innumerevoli. L'assiolo, un piccolo gufetto migratore appena tornato dall'Africa e che tutte le notti nei parchi e giardini emette il suo caratteristico "chiù", mostra un piumaggio che è praticamente corteccia. La Phalera bucephala, una falena diffusa in Eurasia, è identica ad un rametto spezzato. La sogliola è essa stessa fondale sabbioso. Ed il polpo, maestro nello sparire, diventando scoglio nella forma e nel colore. (foto dal web)

MIMETISMO DI AVVERTIMENTO (APOSEMATICO). Talvolta non si ha voglia di nascondersi, ma di apparire! Ci si vuole mostrare e far riconoscere: il modo più semplice è vestirsi di colori sgargianti e brillanti. E' il caso del Vermocane (o Verme di fuoco), un invertebrato marino dalla appariscente livrea rossa. Oppure quello della Fegea (Amata phegea), una comunissima falena diurna nota in molte zone d'Italia col nome di "prete", dipinta di giallo e nero nel suo volo lentissimo da piccolo elicottero. O ancora il rosso brillante dai puntini neri della nostra coccinella (Coccinella septempunctata). Ma perché tutta questa voglia di apparire? Per comunicare un messaggio molto importante: "Sono tossico, velenoso, non mi mangiare!" I colori giallo, rosso, azzurro sono più appariscenti e facili da ricordare per il predatore che quindi, fatto una volta l'errore di assaggiare la sua vittima, non ripeterà lo sbaglio, memore della brutta esperienza vissuta. In pratica: stammi alla larga che è meglio per entrambi! (foto dal web; Verme di fuoco foto E.Fior)

MIMETISMO DISRUPTIVO. Ma che diavolo vuol dire? Disruptivo è qualcosa che rompe la forma, che spezza i contorni rendendoli difficili da decifrare e disegnare. E' proprio quello che fanno le zebre nella savana, a strisce bianche e nere che tutto si direbbe, tranne che siano "mimetiche". Ed invece lo sono a modo loro: quando corrono in gruppo le strisce dell'una si confondono con quelle delle altre, a creare un dipinto cubista senza inizio nè fine. La forma del singolo individuo si perde in mezzo a tutte le altre, mettendo in difficoltà il predatore (il classico leone in agguato nell'erba alta). Scelta simile quella di alcune falene, il cui disegno si va ad insinuare in quello del proprio habitat, dissolvendo i contorni dell'insetto, rendendolo praticamente tutt'uno col suo ambiente. (foto dal web)

Ma non è finita qui! Altri tipi di mimetismo esistono e sono forse ancora più straordinari di quelli appena descritti: strategie che fanno capo alla matematica, alla statistica, alla probabilità, che incrociano le storie evolutive di molte specie diverse, unendole per il vantaggio reciproco o facendole battagliare nei milioni di anni. Ma sono altre storie, di cui parleremo la prossima volta...

IL FOLLETTO DEL BOSCO

E' il folletto del bosco... provate a stargli dietro!

Stamattina pensavo a quale storia scrivere per questa sera. Un paio di idee mi giravano per la testa, nessuna certezza. Poi una piccola ombra scura lampeggia contro il muretto, l'attenzione che ne viene irrimediabilmente attratta, lo sguardo ipnotizzato. Seguirla tra gli alberi fino al giardino, a quel morbido tappeto di pratoline fresco di primavera; qui scoprirne i contorni perfetti, la proporzione delle forme, l'armonia dei colori. Il mio racconto di oggi era lì, in equilibrio leggero, sospeso nella brezza, davanti agli occhi. Spesso le storie più belle e inaspettate si scrivono da sè.

IL MACAONE

Leggera danzi nel mattino, vestita di sole

Ebbra di vento, nettare e luce

Accolta dal candido mare di fiori

Ondeggiano iridescenti ali

Fragile il giorno

Delicato profumo, tempo di petali

La tua vita è in volo

PASQUETTA: UN GIRO FUORI (DALLA) PORTA

Una passeggiata dietro casa nel giorno di Pasquetta, per rinnovare una consolidata tradizione...

LE STELLE

E' una notte nera, senza luna, l'erba umida.

Guarda su, le stelle: miliardi, gettate alla rinfusa nello spazio dal colpo d'apertura. Scegline una: rossa, gialla o blu, nana o gigante, non importa; ciascuna ha la sua storia, la sua vita remota che l'ha fatta com'è ora. Adesso vai, raggiungila lassù, risali gli anni luce e gli spazi oscuri alla velocità del pensiero. Le sei davanti ormai. Osservane gli archi di fuoco, ascoltane la voce calda, respirane il cuore fiammeggiante. In quel momento avviene la magia. Quella che era una fra tante diviene unica; quella che da lontano era solo una stella, ora è un sole.

Citando Camille Flammarion, astronomo francese dell'800: "Le stelle, fiaccole d'umanità viaggianti..."

LA PIANURA CANTA

La primavera canta, con la luce del giorno o col buio della notte. Uccelli ed anfibi danno vita ad un concerto di natura. Ssshhhh... ascoltiamo in silenzio...

LO SCONTRO

L'appuntamento con Daniele era prima dell'alba. Quella è la prima regola: se vuoi vedere gli animali, fai come loro; cioè alzati dal letto che è ancora buio ed arriva sul posto quando la prima luce deve ancora spuntare... solo in questo modo ci si può appostare senza essere notati, nascosti dalle tenebre. Così avevamo fatto. Le stelle brillavano ancora sopra di noi e la giornata di metà ottobre che stava per iniziare si preannunciava di tiepido sole anche qui, nel medio Appennino.

Non avevamo nemmeno bisogno di parlarci, io e Daniele. Un saluto reciproco solo accennato appena scesi dalle rispettive auto e poi il rito della preparazione: scarponi ben allacciati, pile pesante, guanti, berretto, zaino in spalla. Tutto rigorosamente verde militare per diventare parte del bosco. Poi ovviamente binocolo a tracolla e fotocamera in mano, già impostata per le condizioni di primissima visibilità. Bisogna essere sempre pronti, l'incontro può avvenire in qualsiasi momento e l'attimo è da cogliere.

Nonostante il buio le torce frontali non erano necessarie: conoscevamo quel posto alla perfezione, ogni prato, ogni albero, le gobbe dei campi dietro cui nascondersi. Inoltre il punto prescelto per l'appostamento era a pochi minuti di cammino lungo una comoda strada sterrata. I daini si stavano dando da fare: il periodo degli amori era al suo apice e già dai primi passi iniziammo a sentire i loro richiami. Il maschio adulto di daino, detto palancone per la superficie a pala dei suoi palchi, nel periodo riproduttivo emette un caratteristico verso, detto bramito, con la duplice funzione di attirare le femmine e di allontanare gli altri maschi. A dire il vero il bramito del daino è una sorta di pernacchia, o almeno al nostro orecchio fa un simile effetto. Per funzionare il bramito deve avere la giusta tonalità, deve essere emesso con costanza e senza indugio e ciò è possibile solo ai maschi di una certa stazza ed età. Quando un maschio bramisce, i daini intorno capiscono ed interpretano quel messaggio, decifrando la forza di quel soggetto, se può essere un valido partner (per le femmine), oppure un pericoloso competitore (per gli altri maschi). In questo modo, soltanto grazie ai vocalizzi, si risolve la gran parte delle dispute tra rivali: inutile darsele se già so che ne uscirei sconfitto, certamente privo di energie e probabilmente anche ferito o coi palchi spezzati!

Avevamo deciso di metterci in cima ad una gobba del prato più grande che scendeva a sinistra della strada, esposto a settentrione. Sarebbe stato l'ultimo a ricevere i raggi del sole, e proprio per quello era anche l'ultimo spazio aperto a venire abbandonato dagli animali, prima di rientrare nel bosco per trascorrere le assolate ore diurne. I nostri passi erano quasi assenti tanto li misuravamo in delicatezza e precisione, evitando i sassi più grandi e i rametti di quercia caduti a terra. Un rumore di troppo e ci saremmo giocati tutto. Andò bene e raggiungemmo l'erba morbida. Potevamo rilassare i muscoli, ma sempre facendo attenzione ad ogni suono... nostro e degli animali. Quando ci si avvicina così si torna indietro di migliaia di anni, in un attimo invece che una fotocamera in mano sembra di avere una lancia... non per l'uccisione dell'animale, ma per l'istinto di scovarlo, di avvicinarlo nel silenzio e nel buio, di avvistarlo senza essere individuati. Si risveglia in quei momenti il primitivo che è in noi, la sfida con l'animale che un tempo era preda per la sopravvivenza, mentre oggi è pura bellezza, ricchezza per l'anima. E forse per questo vale ancora di più.

I primi raggi salivano dietro di noi, l'alba era rossa alle nostre spalle, ma non ci potevamo distrarre. Eravamo seduti immobili sulla gobba del prato, dove cambiava la pendenza e avevamo davanti un lek (l'arena di combattimento), con qualche daino che faceva avanti e indietro, entrando ed uscendo dal bosco. Non ci vededvano. Ed era proprio nel bosco che stava avendo luogo lo spettacolo: i bramiti che provenivano dal fitto intrico di rami non si contavano più e gli scontri a colpi di palchi si susseguivano. La nostra postazione era a non più di una settantina di metri, ma non vedevamo nulla di quello eh avveniva, nemmeno quando la prima luce si fece avanti. Potevamo solo immaginare. Aspettavamo in silenzio, ogni tanto imprecando e domandandoci perché nessun daino uscisse di lì. Sapevamo che esisteva un lek anche nel bosco, ma non ci capacitavamo del perché tutto avvenisse là dentro, invece che sul prato di erba fresca e buona da mangiare.

Ormai da un paio d'ore stavamo lì infreddoliti a causa dell'umidità della notte che saliva dall'erba verso i nostri pantaloni e poi su fino al busto. Il sole era abbastanza alto, ma noi ancora eravamo in ombra: stavamo quasi maledicendo la scelta di quel posto. Sembrava fatto apposta per stare al freddo facendo crescere l'attesa del grande avvistamento, senza che poi venisse soddisfatta. In realtà i colpi che risuonavano dal bosco erano essi stessi uno spettacolo soddisfacente: i maschi che ancora continuavano la battaglia erano certamente due campioni che non davano segno di stanchezza nonostante l'enorme sforzo continuo.

Stavamo per alzarci quando apparvero. Entrarono in scena senza alcun preludio, continuando ad incornarsi come avevano fatto sino a quel momento al riparo della foresta. Ma adesso erano lì, davanti a noi! Avevano cambiato il palcoscenico in cui esibirsi per il gran finale! Erano due maschi enormi, dai palchi possenti costantemente intrecciati nel combattimento. Ogni cornata risuonava come un colpo secco d'accetta su un grande albero. La polvere si alzava come nel migliore dei western ogni volta che gli zoccoli si impuntavano per spingere l'avversario con la massima forza, caricando ogni grammo di quei cento chili di tendini e nervi per la vittoria. I muscoli si tendevano senza mai rilassarsi, in un costante e infinito contrarsi, senza respiro. Io e Daniele avevamo il nostro preferito, quello dal manto più chiaro, quasi argenteo. Ed il suo nome infatti era Argento, un daino tra i più imponenti e belli mai visti in quella zona. Lo aveva battezzato così Daniele qualche tempo prima. A Daniele piace dare i nomi agli animali che incontra sul suo cammino tra i monti, soprattutto ai lupi. Alcuni ormai li ha resi famosi: Codino, Sottiletta, Antonio, LaPina (tutto attaccato!), e molti altri... Argento, anche se non lupo, si era guadagnato il nome sul campo, ed ora difendeva quel nome e l'onore di re dei daini. Il combattimento andava avanti senza sosta: ai nostri occhi era assolutamente impossibile capire chi stesse vincendo, chi potesse spuntarla. Il linguaggio degli animali è spesso incomprensibile, quando poi si tratta di due palanconi con gli ormoni a mille la cosa si fa ancora più complicata. I daini erano ormai al centro dell'arena e, come nel migliore dei finali, proprio in quel momento il sole compariva ad illuminare come un riflettore lo scontro, il momento della vittoria e della sconfitta. Era trascorsa ormai una ventina di minuti quando Argento sollevò il grande palco e con un rapido scatto invertì la direzione, abbandonando scontro e arena. Aveva perso. Il suo rivale prese ad inseguirlo con foga, ma senza troppa convinzione. Sapeva che la vittoria era sua e la gridò ai boschi lanciando nel vento il suo bramito. In un attimo Argento svanì nella boscaglia, seguito a breve distanza dal vincitore.

Io e Daniele potevamo respirare e guardarci. Sorridevamo. Eravamo felici di aver potuto assistere a quello spettacolo, di essercelo goduto prima nell'attesa, poi quasi nella rassegnazione ed infine nell'adrenalina e nella soddisfazione. Entrambi amiamo scoprire quel che succede là fuori cercando di non entrare nella scena, ma standone fuori, spettatori silenziosi a cui non serve applaudire, ma a cui basta imprimere dentro di sé ogni immagine per sempre.

L'ALBA DELLA LUNA

La luna piena sorge sulle luci tremolanti della pianura. In un time-lapse di un minuto e mezzo i primi 15 minuti sopra l'orizzonte, cambiando colore mentre la sua luce attraversa l'atmosfera terrestre.

TURBINI SULLA PALUDE

Lo storno. Diciamolo pure: non è tra gli uccellini più spettacolari o colorati e, ve lo assicuro, non è nemmeno profumato, dato che trascorre buona parte del suo tempo a cercare insetti e lombrichi nel letame. Il suo canto è un prendere in prestito parole altrui: poiana, luì piccolo, rigogolo, capinera... sono solo alcune specie il cui canto è fedelmente imitato dallo storno che quindi, non di rado, prende in giro chi lo ascolta: per esempio questa mattina nel boschetto di fianco a casa sentivo il gorgheggio flautato del rigogolo che però deve ancora giungere in Europa dall'Africa! Chissà quando e dove quello storno lo ha sentito per poterlo imitare. E che gran bella memoria ha!

Ma il meglio di sé lo storno lo da quando apre le sue piccole ali e vola. Perché il suo non è mica un volo qualsiasi: è un volo sincronizzato!

E' un tardo pomeriggio di fine estate. Le ore di luce iniziano a diminuire sempre più vistosamente ed il sole ormai non scotta più. E' basso sull'orizzonte ad occidente, seminascosto dalla lussureggiante vegetazione, composta soprattutto di salici e pioppi, le specie arboree più diffuse e meglio adattate alle zone umide dei nostri climi. La giornata è stata comunque calda e afosa e si suda ancora. La palude è immobile e scura; a quest'ora ormai il verde vira al nero e rende sempre meno distinguibili le singole forme: foglie e rami segnano davanti a me un unico profilo continuo, mosso solo di rado da una brezza sottile. E' ora. Quel che adesso è silenzio diverrà caos.

Ecco il primo gruppo. Arriva veloce dai campi. Sono una cinquantina, l'avanguardia. Si posano tutti insieme, occupando per intero la parte più alta di un albero secco che spicca isolato. Sono arrivati e si sente: gli storni non stanno zitti un attimo e cominciano a produrre suoni di tutti i tipi, anche se alle orecchie giunge una sorta di chiacchiericcio: come se stessero parlando tutti assieme di una dozzina di argomenti diversi. Il risultato si può immaginare. Non passa nemmeno un minuto ed ecco arrivare un secondo ed un terzo gruppo, da direzioni opposte; vanno verso quell'albero secco. I primi arrivati si stringono, c'è qualche battibecco, ma poi tutti trovano posto. Ora circa duecento storni stanno appollaiati su pochi rami, dando una forma diversa a quell'albero smilzo, che ora pare ingrassato di un paio di taglie.

In arrivo un quarto gruppo, poi un quinto... e il sesto! Puntano tutti quell'albero e i primi inquilini alla fine non ce la fanno più... tutti insieme, come avessero fatto un conto alla rovescia, si lanciano in aria a raggiungere il gruppo che li aveva disturbati. L'albero in un istante è di nuovo spoglio, ma il suo abito adesso è in volo sopra di me. Almeno un migliaio di storni volteggia nel cielo ormai rosa e viola. Il numero di uccelli è destinato ad aumentare rapidamente e in pochi minuti gruppi sempre più numerosi giungono da ogni direzione, perlopiù volando a bassa quota, radenti la vegetazione, e, quando arrivano a destinazione, invece che trovare un posatoio dove passare la notte, si alzano in cielo, guadagnano l'altezza dei loro compagni e si uniscono al volo di gruppo. Il cielo davanti ai miei occhi è ormai un'onda nera di puntini che oscilla senza un senso apparente: prima su, poi giù, quindi lo stormo si separa e prende direzioni opposte, per poi incrociarsi nuovamente e rifondersi. Il momento più impressionante è nella virata di gruppo: in quell'istante migliaia di ali compiono lo stesso identico movimento, fendendo l'aria e diffondendo intorno un sordo boato, una vibrazione di vento. E' vertigine.

La danza continua senza sosta per molti minuti, mentre il buio cala e cielo e terra prendono lo stesso cupo colore. Gli storni sono diverse decine di migliaia e volano all'unisono, cambiando repentinamente direzione, unendosi e allontanandosi, salendo verso il cielo e precipitando al suolo... interazione sociale e difesa dai predatori, questi i motivi dei loro voli sincronizzati. Ma come fanno? Un'ipotesi sostiene che ogni storno sia in grado di percepire in una frazione di secondo la variazione di movimento dei 7-8 individui che lo circondano, quindi seguendo quasi istantaneamente i loro movimenti; un'altra che valuti la variazione del rapporto tra spazi di luce e ombra attorno all'individuo che riesce così a mantenere sempre la stessa distanza dai suoi simili... magari è la somma di queste abilità e di altre che ancora per noi sono mistero. Ciò che importa è che il risultato è poesia che ondeggia nel cielo della sera.

Il sole è calato da un po', è ormai scuro. Non è più tempo di voli, è il momento di scegliere un posto dove trascorrere la notte al sicuro dai predatori. Ed il luogo più sicuro è il canneto, circondato da acqua e boscaglia inaccessibile: ecco perché gli storni sono qui! Le fragili canne vengono riempite rapidamente; si piegano, ciascuna sotto il peso di una trentina di storni, forse più. Il chiacchiericcio si fa estenuante e costante, senza soluzione di continuità. Centinaia di uccelli si spostano a gran velocità, passano a ondate, si infastidiscono e mandano via, poi tornano: la scenetta dura parecchio, fino a quando, a buio fatto, ognuno ha trovato il suo posto. Il rumore però non svanisce e le chiacchiere notturne vanno avanti. Riposare con questo chiasso... solo uno storno può riuscirci.

E comunque è ormai tempo di dormire.

ALBA

Alba è oro sui crinali di collina, dove nasce l'Appennino, dove grandi alberi isolati superano il tempo per divenire pietre di confine tra le morbide valli di grano.

Alba è oro nell'autunno dei larici alpini, in quel tempo sospeso che sta e metà tra il verde e la neve, tra il sole e la notte.

Alba è oro nella prima luce di Capraia, quando una scia schiarisce il mare, increspato di brezza e di sale.

Alba è oro nel fuoco di pianura, nei rami scheletriti, nell'inaspettato incendio di nubi ad oriente.

Alba è oro nell'Egeo, nel lento navigare di Gorgona verso un timido sole nascente.

Alba è oro sul Delta del Po, dove la laguna ancora non sa se essere acqua dolce o mare. Alba è incontro. Alba è oro.

SOTTO LE ONDE DEL MARE

Il mare ora sembra lontano, e invece è sempre lì che ci aspetta con le sue onde, la sua vita, le sue maree... e allora, immergiamoci!

IL POPOLO DEGLI ALBERI

Entrare in punta di piedi nel bosco, sedersi appoggiati ad una grande quercia e lentamente svanire, in attesa del popolo degli alberi.

SPECCHIO DI LUNA

Adesso, la luna.

Volto d’argento, soffio di maree. Terre, oceani, antica geografia evoca umane profondità, disegna i mari della Serenità, della Tranquillità, delle Ombre, delle Tempeste... milioni di crateri, eterne cicatrici di un tumultuoso tempo lontano che ancora vive nel presente.

Dopo millenni di domande, là, nella polvere cinerea, posammo piede. Non trovammo risposte. Lei non dà risposte. La luna è specchio di ciò che su di lei si posa, all’infinito, nell’infinito: come raggi di sole, così riflette dubbio e incertezza, rendendo il viandante sempre bambino.

Ad ogni sguardo risponde con sguardo più profondo: questo il potere della luna.

Nel suo eterno mutevole ciclo, rivoluziona e rimane se stessa: questo il suo mistero.

Adesso guarda la luna lassù! Nasconde la sua anima, che è la tua.

IN NATURA A PASSO DI GATTO

Lasciamoci guidare nell'esplorazione della natura dietro casa da due simpatici gatti. Il bosco, il prato, il laghetto, sono nuovi e diversi, visti attraverso i loro sensi e le loro movenze feline.

L’AMORE PICCOLO

Ru era stanco di starsene rannicchiato là dentro. Ok, era al sicuro, cibo ne aveva, ma ormai sentiva il bisogno di uscire e andare in giro per il mondo. Soprattutto voleva trovare Tai. Non sapeva dove fosse, ma avrebbe avuto buona parte dell’estate per cercarla. Il bosco era grande, pieno di rami frondosi, radici nodose e di nascondigli, ma lui l’avrebbe trovata, avesse dovuto setacciare l’intera foresta. E poi lei emanava quel profumo inconfondibile che si diffondeva ovunque attraverso il sottobosco: l’avrebbe seguito passo passo, avrebbe anche volato se necessario, ma l’avrebbe raggiunta.

Tai aspettava nascosta. Se l’era vista brutta almeno in un paio di occasioni, quando la lingua appiccicosa dei picchi l’aveva sfiorata. Se l’era cavata solo perché aveva dato fondo a tutte le sue forze ed era riuscita ad infilarsi in un cunicolo profondo, dove nemmeno quel becco appuntito poteva arrivare. La vita del cervo volante, pochi centimetri di insetto, è piena di insidie, soprattutto quando si è larve, rinchiuse per tre, quattro, cinque anni all’interno di un tronco marcescente, a nutrirsidi muffe, funghi microscopici e sostanza organica in decomposizione. Era un lavoraccio, ma sapeva di fare un gran bene al bosco: quel che mangiava e poi espelleva si trasformava, divenendo nuovo materiale a disposizione della foresta per costruire piante, animali, funghi. Si sentiva una sorta di riciclatore vivente, e lo era. Ma finalmente quella vita da larva era finita, l’estate era vicina e mancava ormai poco alla sua metamorfosi, a quella vita da adulto che, vero, l’avrebbe portata alla sua fine in poche settimane, ma sarebbe stato il momento in cui avrebbe cercato Ru, il suo promesso. Le loro madri avevano deposto le uova lo stesso giorno, a pochi tronchi di distanza. Ru era vicino. Avrebbe impregnato l’aria di feromoni e lui sarebbe arrivato.

Ru si era finalmente liberato degli ultimi pezzetti di legno che gli si erano appiccicati addosso mentre usciva dal suo riparo, una cavità alla base di una vecchia quercia morente. Poteva vedere da fuori la casa che lo aveva ospitato per tutto quel tempo, offrendogli cibo e riparo dai predatori e dal gelo. La sua corazza lucente brillava nei raggi lunari, il nero metallico delle sue elitre luccicava di nuovo e vibrava nella brezza del bosco. Le sue possenti sproporzionate mandibole sembravano corna, pronte a sfidare tutti gli avversari che si fossero frapposti tra lui e l’amata. Li avrebbe sollevati e spinti giù dai rami alti, uno per uno, facendoli cadere al suolo. E l’avrebbe avuta. Già pregustava quegli scontri, il successo, lei. Una rapida occhiata dietro di sé; la vita passata non contava più, era ora di andare. La luna era alta e piena nel cielo di luglio e la notte attendeva solo d’essere vissuta. Aprì per la prima volta al mondo le sue elitre, così sotto di esse le piccole ma potenti ali si spiegarono nella volta della foresta. Ronzando come un piccolo elicottero, si lanciò in volo alla ricerca di Tai. Erano trascorsi tre anni. Ru la cercò tutta l’estate.

Tai era pronta: le ali erano perfette e funzionanti, ma preferiva camminare lentamente tra le foglie secche e le cortecce. Come tutte le signorine che si rispettino, attendeva che fosse lui a raggiungerla. Lei si limitava ad emettere feromoni sessuali. Tutti i maschietti del circondario non avrebbero potuto resisterle, nel suo manto nero lucente appena fatto. Ma a lei non importava degli altri. Voleva solo lui. Rimase tra i rami in suaattesa. In cielo la stessa luna, intorno la stessa foresta che vedeva Ru. Ma era un'altra estate.

P.S. La durata del periodo larvale del cervo volante dura diversi anni, da 3 fino a 7-8. A decidere l'anno di maturazione sono in parte la genetica, ma soprattutto condizioni ambientali del sito di deposizione e di sviluppo della larva.

BATTAGLIE DI MARE

Come quasi tutte le mattine, all’alba mi godevo il mare. Era uno dei pochi momenti liberi dal lavoro, sempre impegnato com’ero tra escursioni, gite in mare, attività varie con gli ospiti del villaggio turistico. Impegni oltremodo gradevoli, ma che pochissimo tempo lasciavano per me e per staccare. Quella era la mia ora, quando l’isola si svegliava con la rugiada salata della notte, i primi raggi illuminavano le scogliere rossastre ed i boschi scuri di Scopelos, isola gemella un paio di chilometri davanti a me. Era fine agosto e le cicale avevano ormai smesso di cantare; file di formiche portavano via i loro ultimi resti chitinosi, un’ala, una zampa. La morte in natura è nuova vita, e la processione di formiche ne era allo stesso tempo inno funebre e di rinascita. L’intera isola era così consegnata al silenzio dell’estate che iniziava a tramontare, accorciando la luce, ammorbidendo il calore del sole che non scottava più la pelle.

Seduto sugli scogli a fianco della terrazza sul mare, aspettavo. Gli occhi in acqua a cercare ogni movimento, ogni onda sospetta: l’Egeo era il mare della foca monaca mediterranea, tra i più rari e misteriosi mammiferi del mondo, ridotta a poche centinaia di individui dalla caccia e dalla perdita di siti di riproduzione, in gran parte occupati e modificati dalla presenza umana. Ma era anche mare di delfini comuni e di tursiopi, di falchi della regina in volo radente, di stormi di berte minori come minuscoli puntini bianchi sullo specchio blu. Non di rado queste creature passavano davanti agli occhi di chi guardava tra le onde, spettatore di dramma o commedia; il mare è palcoscenico imprevedibile e cangiante nei colori, nella luce, nei suoni e negli attori.

Quella mattina infatti lo spettacolo giunse inatteso.

L’acqua era calma, ma non immobile: una sottile brezza soffiava abbastanza da increspare lievemente la superficie, rendendola frizzante. Già da alcuni giorni, come tutti gli anni a fine estate, decine di migliaia di aguglie, pesci anguilliformi con un sottile becco per bocca e lunghi una trentina di centimetri, affollavano le acque in prossimità della costa. Era il loro periodo riproduttivo e quelle condizioni erano idonee per l’accoppiamento: fondale basso parzialmente roccioso, ricco di anfratti, insenature, lontane dal mare aperto e dai predatori. Quasi tutti. Stando sul molo o sulla prua di un’imbarcazione ferma in rada, a grandi gruppi le si poteva osservare spostarsi lentamente in prossimità della superficie, con quel corpo esile e sinuoso da danzare nel liquido. I riflessi argentei donavano loro una certa eleganza, quasi dei coltelli affilati disposti ordinatamente appena sotto il pelo dell’acqua, ad abbagliare di riflessi il predatore (per questo gran parte dei pesci riflette la luce, creando flash che disturbano la visione di chi le attacca, soprattutto se chi scappa è in gruppo). Anche quella mattina banchi di aguglie si intravvedevano sotto costa, mentre inseguivano banchi di piccoli pesci, facendoli saltare fuori dall’acqua e uscendone loro stesse durante la rincorsa. Quando inseguiti molti animali marini saltano fuori dall’acqua per aumentare la velocità, dato che la resistenza offerta dall’aria è assai inferiore rispetto a quella dell’acqua; il dispendio energetico è però superiore e dunque non è solo una gara di velocità, ma anche di resistenza. Le aguglie spingevano i malcapitati verso gli scogli per limitarne le vie di fuga e lì si consumava il banchetto. Ma i predatori non sapevano che di lì a poco tutto sarebbe cambiato: il predatore sarebbe divenuto preda ed avrebbe dovuto nuotare veloce per salvare la vita.

Sulla sinistra della mia visuale, oltre il basso promontorio di scogli che si spingeva in mare, con la coda dell’occhio percepii un oggetto più massiccio fuoriuscire dall’acqua, ma non feci in tempo a inquadrare il punto con lo sguardo per capire cosa fosse. Vedevo soltanto l’acqua schiumosa, i cerchi di onda allargarsi dal centro, come un grosso sasso fosse stato lanciato là in mezzo. Istintivamente mi voltai in cerca dell’autore dello scherzo, qualche ragazzino alzatosi presto, o qualche papà burlone. Non c’era nessuno. In quello stesso istante un altro tonfo, questa volta proprio davanti a me, che però ero attento a guardarmi le spalle. Stavolta avevo sentito distintamente anche il colpo sordo del corpo che ricadeva in acqua. Ero immobile in ogni muscolo, quasi non respiravo: è un riflesso istintivo che ogni volta mi fa regredire di 10 mila anni, facendomi tornare cacciatore-raccoglitore, quando un pasto significava sopravvivenza e bisognava saper ascoltare ogni segnale della savana. Trattenere il respiro significa sospendere noi stessi dal mondo, impedendoci di interagire con esso, pronti a percepire qualsiasi cosa ci sia là intorno. E così era in quel momento d’attesa, fino a quando lo vidi: la grande sagoma lucente, la coda a falce, le pinne taglienti come lame emergevano dal mare come un mostro marino. L’imponente tonno era lungo circa un metro e nonostante pesasse almeno mezzo quintale riusciva a lanciare la sua enorme massa fuori dall’acqua, a rimanere sospeso in volo e ricadere in un tripudio di schizzi e schiuma. E non era solo. In ogni direzione si vedeva il mare ribollire come fosse un grande pentolone. Le aguglie fuggivano in ogni direzione, saltando in sincrono a centinaia fuori dall’acqua, in un arcobaleno di flash iridescenti che durava un istante, lo stesso arcobaleno che creavano nel loro balenare, come fossero un unico pesce indistinguibile. La frenesia di predatori e prede era drammatica e magnifica al contempo: mi sentivo in un documentario della BBC, uno di quelli girati in mezzo all’Atlantico, in luoghi inarrivabili di tempeste, mareggiate e animali esotici. Invece era tutto vero, lì davanti ai miei occhi ed a quei pochi ospiti che, mattinieri o insonni, avevano scelto l’alba di mare. Schizzi, salti, spruzzi, schiuma, si susseguivano senza ordine né sosta nella battaglia di mare, un caos apparente ai nostri sguardi che potevano percepire solo una piccola parte di ciò che stava avvenendo. Quasi tutto si stava svolgendo sotto la superficie, dove un gruppo di grandi tonni pinne gialle tallonava i banchi di aguglie, disperdendoli tra loro ed emergendo con violenza per colpirle e stordirle, potendosene poi nutrire. Ogni attacco era imprevedibile: dove e quando il predatore sarebbe emerso nuovamente dalle profondità non si poteva sapere e così quasi sempre potevo osservare soltanto la fase finale del confronto, la ricaduta in acqua, gli spruzzi in aria. Decisi di rinunciare alla visione complessiva; mi ero concentrato su un banco di aguglie che nuotava veloce balzando dentro e fuori la superficie come avesse il diavolo all’inseguimento. E finalmente quel pesce portentoso ruppe il mare ed emerse, volando sull’acqua e scavalcando le sue prede, argenteo e dorato colpito dal sole.

Tutto era finito come era iniziato, senza preavviso. Lo spettacolo era durato pochi minuti, gli attori abbandonavano il palcoscenico senza concedere il bis, il pubblico improvvisato sperava in un ultimo tuffo da applausi, che non arrivò.

Una sola immagine mi resta di quel momento in cui il mare è per pochi istanti entrato nel nostro mondo, fatto di terra e aria. La superficie dell’acqua è linea di confine in cui due universi si sfiorano, talvolta si toccano e si parlano, come in quella straordinaria alba di fine agosto.

L'APE

L'operosità, la costanza, l'abnegazione dell'ape per il suo compito: raccogliere nettare e polline, l'oro dei prati, da portare alle sue sorelle ed alla sua regina. Osservandola all'opera ho la sensazione che l'ape frema per tuffarsi tra le corolle dei fiori, mentre riempie le sue cestelle di polline e ricopre la sua fitta peluria di polvere dorata. Ed il suo instancabile moto è pura bellezza.

RACCONTO DI MONTAGNA

E’ un inverno senza neve sulle Alpi, come sempre più spesso accade nel nome del riscaldamento climatico globale. Solo lassù in alto il giallo secco delle praterie sommitali si chiazza di un bianco sporco, memoria di fiocchi scesi settimane prima e che il gelo ha provato a trattenere, riuscendoci solo in parte.

Piego la testa indietro per inquadrare per intero il monte davanti a me, fino alla piramide della sua cima, dai pendii levigati dal vento e dai ghiacci. Il monte Ometto (Mandelspitz in tedesco) raggiunge circa 2400 metri di quota e si trova nel piccolo settore di lingua tedesca del Trentino: uno di quei luoghi in cui la storia dell’uomo interseca quella del paesaggio senza coerenza, dimenticando le linee disegnate dai crinali, le logiche linee di confine. La stretta valle è punteggiata di piccoli paesi dai nomi impegnativi per chi non avesse un minimo di dimestichezza con la lingua germanica: Proveis, Matzlaun, Laurein. In questo i miei trascorsi bolzanini aiutano. Che poi quello che si parla qui non è tedesco puro, piuttosto un dialetto, fatto nel tempo dalla montagna e dal lavoro. Nonostante a pochi chilometri, lungo l’unica strada che li collega al resto del mondo, tutto sia italiano sia di forma che di contenuto, quei minuscoli abitati di frontiera resistono al tempo, fieri delle loro tradizioni, dei loro abiti, della loro cultura. La loro appartenenza all’Alto Adige è anche motivo per cui qui i paesi non sono circondati da boschi fino a ridosso delle case; in questi luoghi ancora gli alpeggi ed i pascoli si sdraiano dove li si incontrava secoli fa e dove per generazioni mandrie e greggi al pascolo hanno mantenuto quelle distese d’erba. Oggi il pascolo avviene unicamente in estate negli alpeggi d’alta quota, ma le praterie sono mantenute e sfalciate annualmente grazie ai finanziamenti garantiti dalla Provincia Autonoma di Bolzano: fieno per le stalle d’inverno e armonia del paesaggio, e soprattutto riduzione dello spopolamento della montagna, quanto avvenuto in tutto il resto d’Italia a partire dal Secondo Dopoguerra, periodo in cui le foreste, sia quelle alpine e ancor più quelle d’Appennino, hanno iniziato ad inghiottire inesorabilmente prati e pascoli, sostituiti dall’ombra dei boschi.

Il Monte Ometto è una delle mie mete preferite. Da tempo ormai dedico alla sua salita una o due giornate all’anno, solitamente in stagioni fredde, quando lassù l’unica compagna è la solitudine. Ho sempre amato sapere d’essere solo al cospetto della montagna, pensare che il suo abbraccio sia esclusivo ed attento. Non ho mai sfidato la montagna, ne ho solo cercato la carezza. Ecco perché solo di rado aspiro alla cima, preferendole scoprire angoli nascosti e boschi sconosciuti, percorrere piste d’animali che nessuno ha mai seguito, ascoltare ruscelli il cui fluire muta ogni giorno a seconda della pioggia, delle neve e del ghiaccio.

Anche questa volta non voglio la cima, ma camminare in silenzio, e in quel silenzio incontrare i suoi abitanti. Il primo tratto dopo aver lasciato l’auto si snoda quasi in piano in un bosco di abete rosso fitto e buio, una foresta certamente d’impianto risalente agli anni ‘70-‘80 del ‘900, dove ancora sono evidenti le file rettilinee di alberi piantati e la coetaneità delle piante. Ma presto tutto cambia: dopo una decina di minuti imbocco un ripido sentiero forestale che si apre sulla sinistra. Non so quale sia la pendenza percentuale, ma l’effetto è quello di togliere il fiato in pochi metri. Ormai ho imparato e, memore delle salite precedenti, appoggio un passo dopo l’altro senza fretta, senza la smania di arrivare. Nonostante il fiatone, anche dovuto al pesante zaino sulle spalle ed alla fotocamera con teleobiettivo che tengo in mano, mantengo la lucidità e faccio caso che è tarda mattina e la possibilità di scorgere qualche animale è scarsa a quest’ora: alba e tramonto sono i principali momenti di attività della fauna, ed infatti, durante i quasi tre quarti d’ora di ascesa, incontro soltanto un paio di scoiattoli ed una banda di cince appartenenti a varie specie, soprattutto cince dal ciuffo e cince more, tipiche delle foreste di conifere. Lontano arriva il verso del picchio nero, primordiale grido dei boschi vetusti.

Il versante su cui mi trovo è esposto a meridione ed anche d’inverno la temperatura diurna sale quasi sempre sopra lo zero, irradiata dai raggi solari. La relativa mitezza del clima rispetto alla quota, circa 1800 metri, consente ai faggi, dalle forme antiche e bizzarre, di mischiarsi agli abeti rossi dall’imponente fusto colonnare, dando vita ad uno di quei boschi magici narrati da Tolkien e molti altri autori. La giornata è di sole e senza vento. La luce che filtra sotto la foresta, in contrasto al buio del sottobosco, mi abbaglia ritmicamente, quasi da privarmi dei colori. Così arrampico in bianco e nero tra gli aghi d’abete e le distese di foglie di faggio, tanto secche e fragili quanto rumorose in quella quiete assoluta. Più arranco e più mi rendo conto che il rumore che faccio, nonostante l’attenzione posta ad ogni passo, tiene lontano qualsiasi cervo o capriolo nel raggio di centinaia di metri. Mi metto l’anima in pace e mi concentro sulla salita.

La durissima pendenza porta con sé un grande vantaggio: si arriva prima alla meta. Dopo poco più di un’ora di fatica e sudore finalmente vedo la baita. E’ una piccola casetta incastonata nel fianco della montagna, evidentemente per far sì che eventuali valanghe non se la portino via, ma, nella peggiore delle ipotesi, le passino sopra senza troppi far troppi danni. Il legno delle sue assi è scuro e ben si insinua nei colori del bosco rado in cui si trova: qui solo pochi grandi abeti sfidano il freddo, mentre i faggi sono rimasti più a valle. La porta è chiusa, come sempre l’ho trovata, e come spero di trovarla ogni volta. Mi piace pensare che sia lì per accogliere il viandante, nonostante la serratura chiusa a chiave. Chi cammina in montagna sa quale sia la meraviglia dell’andare dove non c’è traccia di umanità, ma al pari quanto sia rassicurante e trasmetta calore, sotto un temporale improvviso o dopo ore di silenzio, incontrare un tetto, delle assi, una panca con un tavolo. Quel modo antico che l’uomo aveva di costruire e creare chiedendo permesso alla natura, da lei prendendo il legno necessario, e solo quello. La baita d’abete circondata da legno, di alberi che sacrificati per accogliere. Spero di non incontrare mai nessuno arrivando a quella baita. Sarebbe quasi profanare una visione intima e pura.

Tiro un sospiro e guardo in su. Da qui in poi il sentiero non esiste più, è solo prateria punteggiata di grandi e vecchi abeti dalla chioma verde scura, ma che nel sole alto riflette d’argento. L’erba è gialla e secca, sdraiata verso il basso dalla neve già sciolta. La prateria è composta principalmente una particolare specie di festuca delle alte quote, particolarmente coriacea e scivolosa. Salire sarà faticoso e scendere altrettanto, e con tutta probabilità metterò il sedere per terra più d’una volta. Non ci sono più foglie secche sul terreno, mi muovo lento, ma silenzioso; unico suono nell’alta quota è il mio sbuffo di fatica che evapora svelto in nuvolette di condensa. Ogni volta che rivolgo lo sguardo verso l’alto pare vicina la meta, quella parete di radi pini mughi dove il pendio spiana leggermente e dove si incrocia il sentiero n.133 Aldo Bonacossa, che percorre a saliscendi tutto il Gruppo delle Maddalene e che richiede due o tre giornate di cammino. Ed invece mi ci vuole un’altra ora buona per raggiungerla.

Eccoli! Un gruppetto di camosci si muove rapido sul costone: mi hanno percepito da lontano e ora guadagnano il versante settentrionale ancora ammantato di neve. Un paio di femmine con altrettanti giovani dell’anno. Sanno che lì sono i signori assoluti, che nessun umano o animale può competere con la loro destrezza tra ghiaccio e roccia su pendenze da vertigine. Si fermano un istante sul crinale per controllarmi: è tipico dei camosci sostare su promontori e grandi massi dando un ultimo sguardo al potenziale pericolo. Lanciano un fischio di disapprovazione, il loro verso d’allarme. Non era mia intenzione disturbarli, ma probabilmente la fatica mi ha impedito d’essere totalmente silenzioso e gli spazi aperti hanno fatto il resto. Spariscono in un istante.

Mi siedo e mi copro. Sono sudato e quassù tira vento freddo a folate. Sono ormai le due del pomeriggio e il sole timido degli ultimi giorni dell’anno inizia già a calare, regalando quella luce tenue e delicata che solo l’inverno sa dipingere. Bevo e mangio qualcosa, che poi quel qualcosa è quasi sempre un sacchettino di taralli, miei fidi compagni di cammino (tradizionale e raccomandato pasto di montagna: la Puglia in Trentino!). Mi godo il panorama, che ben conosco, e che per questo di più amo. Ogni volta ritrovare un vecchio amico, la stessa foschia di camini nelle valli, gli stessi profili bluastri dei monti, quei paesi che da qui sono formiche aggrappate da secoli ai ripidi pendii, il lago nel fondovalle che ora è specchio di luce dorata. Laggiù è rumore di parole, di motori, di televisori che posso solo immaginare. Qui invece è silenzio. Soltanto la brezza sibila con voce sottile, mentre dal bosco sotto di me risale confuso il chiacchiericcio di un gruppetto di crocieri, probabilmente impegnati a rimpinzarsi di semi rompendo pigne.

E’ tempo di andare. La prima parte di discesa richiede attenzione e ginocchia buone, che ormai non ho più. Stasera e domani saranno dolori, ma finché mi tengono in piedi, si va. Come previsto metto a terra il fondoschiena un paio di volte, senza conseguenze. Procedo a zig-zag per ridurre la pendenza, scegliendo il percorso meno accidentato, o almeno quello che sembra tale. Mantengo il silenzio. Non mi piace il rumore sui monti, mai, nemmeno al termine della fatica. Il rumore non è voce della montagna; qui lo stato naturale è il silenzio, i monti hanno altre lingue per raccontare. Solo di rado mi concedo sussurrando qualche nostalgico canto degli alpini nell’ultimo tratto, quando già il silenzio è rotto dai sassi sotto le suole degli scarponi che scrocchiano ad ogni passo.

E se si fa silenzio, l’incontro può nascondersi dietro l’angolo. Il nero maschio di camoscio mi guarda indolente, senza curiosità né paura. Si trova sull’altro versante di uno stretto e ripido impluvio, più in alto di me che sono ormai quasi alla baita. Il fitto pelo scuro gli conferisce un’aria imponente e la sua figura appare ancora più massiccia di quella che è realmente. Trascorre la sua vita ad alta quota, tra ghiaioni e nevai: è una macchina perfetta adattatasi per questi climi e non stupisce che il suo vello sia lungo, folto e scuro, per trattenere i timidi raggi solari invernali. D’estate il suo mantello si farà corto e chiaro, color camoscio appunto, per rendersi invisibile tra rocce e crinali. Uno sguardo nel teleobiettivo: è un maschio adulto. Oltre al portamento fiero, anche le lunghe corna uncinate ne sono un segnale. Le femmine le portano più sottili e con un uncino meno sviluppato. Non so cosa fare: se accontentarmi dell’incontro, o cercare di renderlo speciale. Camosci ne ho visti parecchi e questo ha l’aria di farsi gli affari suoi e soprattutto di non essere per nulla disturbato dalla mia presenza. E’ quello che mi convince. Risalgo il pendio, spostandomi sul lato del camoscio. Quando lo scopo è l’avvicinamento ad un animale selvatico, la salita non è più salita, le ginocchia non sentono più dolore, l’ambiente intorno è solo distanza che separa dall’obiettivo. Mi muovo deciso ma con delicatezza, ogni passo nel punto giusto, sempre con uno sguardo al nero camoscio, per notare qualsiasi segnale di insofferenza o fastidio. Non ne vedo, pascola tranquillo, nonostante si sia accorto di me e ogni tanto mi dedichi una rapida occhiata di controllo. Guadagno quota mentre lui rimane quasi immobile, preso dal suo pasto tardo pomeridiano. Sono totalmente concentrato su di lui e su di me, nient’altro attorno; ormai sono ad una quarantina di metri e quasi striscio sull’erba fredda e ruvida. Alza la testa. Mi fermo. Non ha senso andare oltre. Nel silenzio sento le sue mascelle masticare gli steli coriacei, vedo la condensa del suo respiro. Un filo d’erba gli rimane fuori dalla bocca, mentre per un istante si blocca in ascolto. Sembra uno stuzzicadenti a fine pasto. Scatto foto e respiro l’incontro, le braccia che tremano dalla tensione, ma soprattutto per i tre chili del teleobiettivo da tenere immobile durante il click a mano libera, in una posizione tutt’altro che comoda e con l’ultima luce del tramonto. La migliore come resa, ma anche quella più scarsa che costringe all’immobilità assoluta, pena gli scatti mossi.

Come un nativo americano sulla pista del bisonte, il mio avvicinamento al camoscio è durato almeno un quarto d’ora, tempo in cui non è esistito null’altro dietro, di fianco, oltre. Eppure in quel momento mi volto di scatto dietro di me, senza un motivo, solo d’istinto, dimenticando i movimenti delicati scelti fino a quel momento. Il pendio è tanto ripido che guardare indietro significa guardare il cielo. E nel cielo del tramonto, sopra i profili lontani dei monti, in quell’istante vola l’aquila reale. Il suo passaggio è rapido, dura solo pochi secondi: arriva da sud in direzione nord, compie un giro completo, guadagnando quota, ma rimanendo comunque sotto di me. Poi va, in un attimo, così come era comparsa. L’aquila, come il lupo, non ha mai fretta. Per svanire ai grandi predatori basta essere fantasmi, sublimare nel cielo l’una, nel fitto bosco l’altro. In quei brevi istanti scatto solo un paio di foto, quelle concessemi dal breve tempo a disposizione e dalla difficoltà di messa a fuoco: le riguardo. Le grandi macchie bianche sotto le ali dicono essere un’aquila giovane, probabilmente nata quell’anno o al più il precedente. Giovane, ma già regina dei cieli. La mia attenzione va di nuovo al camoscio che continua placido il suo pascolo. Mi muovo lentamente verso il basso, percorrendo passo passo la stessa via seguita in salita. Il camoscio è ormai lontano e posso scivolare veloce tra gli abeti sempre meno radi, riservare un rapido saluto alla mia baita e riprendere il sentiero di foglie secche che mi porterà giù, nella valle degli uomini. Da ragazzo spesso la discesa dai monti era di corsa, a divorare svolte, tronchi caduti, ruscelli da guadare… oggi faccio più fatica, conservo di più le mie ginocchia e mi piace vivere il silenzio anche al ritorno. Ma questa volta no; questa volta corro. Corro per festeggiare l’incontro con la vita d’alta quota, per la consapevolezza che io scendo, ma lei rimane lassù, sotto forma di camoscio e di aquila. Ho sfiorato quella vita e me ne porta via un pezzetto fatto di nulla se non di ricordo, solo mio. Avrei potuto non girarmi esattamente in quell’istante, non godere di quel volo leggero e maestoso. Ma la montagna è spesso generosa, se si fa silenzio.

LA PRIMAVERA SI RISVEGLIA... DIETRO CASA

La primavera si risveglia. In una farfalla che si scalda al sole, nel canto di un minuscolo migratore appena giunto dall'Africa, nei colori dei prati, nel tripudio d' insetti sui fiori. Un breve viaggio per immagini e parole nella vita che rinasce a pochi passi da noi, dietro casa.

LA MAGIA DEI NUMERI PRIMI

E’ un caldo primo pomeriggio di inizio estate. Tutto è giallo e immobile nell’afa del giorno, tutto è silenzio. Solo un rumore costante diffonde tutt’intorno senza una provenienza, inondando l’arida campagna di luglio. Centinaia di invisibili cicale friniscono nella calura, senza sosta e senza apparente stanchezza. Quante volte, sdraiati nell’ombra di un grande albero tra sonno e veglia, quel canto sopra di noi ci ha ipnotizzati, cullati, senza mai vederne il musico, tanto da credere il suono originasse dalla pianta stessa, dai quei rami nodosi e antichi. La cicala, un insetto associato al dolce far niente, alla vita beata che non pensa al domani, contrapposta all’operosità della formica. Eppure anche la cicala nasconde segreti e bellezza, oltre a possedere una strepitosa capacità matematica.

Ma andiamo per gradi.

Tutte le centinaia di specie di cicala che esistono al mondo, alcune più grandi, altre più piccole, dal frinito diverso come intensità e frequenza, suonano (perché più che un canto è un suono) uno strumento unico ed esclusivo della loro famiglia: sotto l’addome il maschio dispone di due lamine, dette timballi, collegate a muscoli che le fanno vibrare ad altissima velocità, producendo un suono. Ma l’insetto è piccolo e per propagare lontano quella vibrazione serve un’altra invenzione… una cassa di risonanza! E così l’addome contiene anche delle camere d’aria che amplificano la vibrazione, per la gioia delle signorine cicale, che da chi suona più forte sono particolarmente attratte. Alcuni anni fa crebbi un giovane rondone caduto dal nido ed in Grecia, dove mi trovavo, non avevo granché con cui nutrirlo. Così spesso integravo la sua dieta con cicale catturate qua e là tra le migliaia che frinivano ovunque attorno. Quando le spezzavo in piccoli pezzi (perdonate la scena splatter) per darle al rondone, il cui cibo in natura sono insetti, ma di ridotte dimensioni, ho limpidissimo il ricordo dell’addome letteralmente vuoto della cicala, a fungere da cassa armonica. Per inciso quando un giorno quel rondone prese il volo come una saetta, credo si si sia bullato parecchio con i suoi amici alati di essere probabilmente l’unico rondone al mondo svezzato a “suon” di cicale…

Oltre al canto, la cicala lascia dietro di sé un altro indizio della sua presenza. Quando da un boschetto o da un filare alberato sentiamo frinire decine di cicale, aguzziamo la vista ed improvvisiamoci detective: alla base dei tronchi o su steli d’erba, andiamo in cerca di un reperto naturale che è al contempo simbolo di enorme resistenza ma anche di estrema fragilità. Eccola, aggrappata ad una corteccia ruvida, lunga un paio di centimetri, color giallo ambra, la vecchia pelle della cicala, l’ultimo abito indossato allo stadio di ninfa ed abbandonato per trasformarsi nell’adulto alato che conosciamo. Osserviamo con attenzione quello che in apparenza è un insetto rinsecchito: non ha ali, l’aspetto è compatto, porta tre paia di zampe come tutti gli insetti, ma il primo paio, quello anteriore, è diverso dagli altri. Le due zampette portano infatti dei rigonfiamenti terminali, quasi fossero delle zappe destinate allo scavo. Ed infatti è per quello che la ninfa le utilizzava sottoterra. La loro utilità è però doppia: ora fungono da piccozza per consentire alla ninfa di abbandonare il terreno che l’ha ospitata per circa tre anni e di aggrapparsi saldamente ad alberi, muri, steli, superfici su cui poi noi possiamo rinvenire questi oggetti misteriosi.

Ma quella vecchia pelle ha altre particolarità: sul dorso una spaccatura mediana, una linea che taglia in verticale quella che era la schiena. Da quella sottile fessura è emerso l’insetto adulto, che ora sta cantando (se maschio) o ascoltando (se femmina) da qualche parte tra le chiome degli alberi intorno a noi.

Quell’ultima pelle ormai secca e fragile, tanto da rompersi al solo sfiorarla, ha un nome: esuvia o exuvia. Trovata un’exuvia, poi l’occhio si acuisce ed i ritrovamenti si moltiplicano. Per i bambini che accompagnavo nelle passeggiate estive all’interno del villaggio greco, la caccia all’exuvia diventava l’attività della vacanza e mi si presentavano ogni giorno fieri dei contenitori pieni di pelli di cicala: da una parte gli sguardi schifati di alcuni genitori, dall'altra quelli sorridenti della maggior parte, che aveva compreso dagli occhi dei loro figli come l’avventura più coinvolgente stia nella ricerca del nuovo e di come ciò che è sconosciuto diventi spesso entusiasmante.

Ma l’exuvia non è l’unico abito che la cicala ha indossato nella sua vita precedente, in quei tre lunghi anni quando era ancora afona e nascosta nel terreno, là dove le femmine depongono le uova. Durante la sua vita da larva e poi da ninfa ha svolto numerose mute, sostituendo quella pelle rigida ormai incapace di contenere l’insetto che si sviluppava al suo interno ed accresceva le sue dimensioni. Le cicale che friniscono non sono dunque appena nate, quella è solo la parte finale della loro vita, potremmo dire il loro canto del cigno.

Il segreto più profondo delle cicale è però un altro e si nasconde in alcune specie, sette per la precisione, che vivono in Nord America, ed il nome della cui famiglia è Magicicada (dove cicada deriva dal latino e sta per cicala). Anch’esse friniscono, anch’esse si liberano dell’exuvia, anch’esse si sviluppano sotto terra, ma non ci restano solo tre anni. La loro permanenza nel sottosuolo, e dunque il loro ciclo vitale, dura rispettivamente 13 anni (4 specie) e 17 anni (3 specie). Prendiamo ad esempio una specie con ciclo di 13 anni: per molti anni di quella specie non esistono insetti allo stadio adulto, ma tutti gli individui si trovano allo stadio larvale o ninfale sottoterra. Fino a quando, dopo 13 anni, tutte quelle ninfe emergono dal terreno, si liberano dell’ultima muta e vivono da adulte un mese circa, il tempo di accoppiarsi, deporre le uova e morire. Ma perché 13 anni? Innanzitutto lo sfarfallamento di un numero così straordinario di cicale tutte concentrate nello stesso breve periodo (milioni, talvolta miliardi) estremizza quello che viene definito “effetto diluizione”. In pratica: "se siamo così tante per un così breve tempo, perché un predatore dovrebbe prendere proprio me?" Qui ci va di mezzo la statistica, e vi assicuro che hanno ragione. Quindi in matematica vanno forte.

Ma il colpo di genio è un altro. Un qualsiasi predatore che volesse approfittare dell’enorme abbondanza di quella specie di cicale si trova davanti ad una difficile scelta evolutiva: specializzarsi sulle cicale ed aspettare 13 anni che sfarfallino gli adulti? Un po' troppo, farebbe in tempo a morire di fame… Quindi meglio per il predatore concentrarsi e specializzarsi su altre prede. Oppure, e sarebbe molto vantaggioso, imitare il ciclo delle cicale e presentarsi ogni 13 anni in numero cospicuo per mangiarsele in abbondanza? Più facile a dirsi che a farsi. Ma attenzione! 13 è un numero primo, ovvero divisibile solo per uno o per se stesso. Se la cicala avesse un ciclo di 10, 12, 15, 16, 20 anni… per il predatore sarebbe relativamente semplice sincronizzarsi sulla preda, essendo tutti i numeri citati multipli di 2, 3, 5. Quindi per il predatore basterebbe per esempio avere un ciclo di 2, 3 o 5 anni per ritrovarsi nel bel mezzo di un tripudio di cicale. Ma 13?! Il numero 13 non ha sottomultipli, è appunto un numero primo e quindi sincronizzarsi su quel ciclo è davvero molto complicato. Per non parlare delle tre specie di cicale il cui ciclo dura 17 anni. Guarda caso un altro numero primo.

L’evoluzione talvolta segue strade imprevedibili e stravaganti. La famiglia di cicale Magicicada ha certamente attinto dalla matematica, ma forse, come è già nel nome, anche un po' dalla magia.

UN'ALTRA PASSEGGIATA IN NATURA

Anche oggi facciamo un giretto tra campi, boschetti e specchi d'acqua, tutto dietro casa. Perché c'è sempre qualcosa da scoprire!

UNA QUESTIONE D'EQUILIBRIO

Lo sappiamo, è il momento della ragione, del controllo di sé, della pacatezza. Ma è anche il momento di lasciare andare i pensieri. Lontano. Di sentimenti vividi e potenti, di emozioni profonde e sincere. E' da sempre dilemma della nostra mente la scelta tra la parte più razionale di noi e quella più istintiva. Oggi più che mai siamo messi alla prova, costretti e sotto pressione. Ad ognuno la propria ricerca e la propria risposta, se la troverà. Di sicuro ancora una volta la natura ci viene in soccorso, suggerendoci che un punto d'incontro esiste sempre, che ragione e follia possono coesistere, intrecciarsi, completarsi, in un magnifico, imprevedibile e sempre nuovo equilibrio.

Equilibrio è un organetto nella neve alpina.

Equilibrio è la raganella su uno stelo di papiro nella notte di Capraia.

Equilibrio è la gallinella che corre sull'acqua.

Equilibrio è il salto di un delfino nel Mar Egeo.

Equilibrio è il cardinale venerosse aggrappato ad una spina d'agave.

Equilibrio è il venturone alpino in cerca di semi nell'alba dorata.

Equilibrio è lo stiaccino sulla cima d'un abete.

Equilibrio è un migliarino di palude che ondeggia su una canna al vento.

Equilibrio è il codibugnolo che si sente trapezista.

Equilibrio è quello di centinaia di aguglie che surfano sul mare.

Equilibrio è il salto del capriolo nel tramonto invernale.

Equilibrio è il volo sincronizzato di migliaia di storni nella sera.

Equilibrio è la sterna che dona al suo piccolo un minuscolo pesce.

Equilibrio è il camoscio di vedetta sui dirupi alpini.

Equilibrio è nel fulmine che per un solo istante unisce cielo, terra e mare.

Equilibrio è nel rondone che vola nell'arcobaleno, perché andrà tutto bene.

Equilibrio è nella precisione della sfinge colibrì.

Equilibrio è nel picchio muratore a testa in giù.

Equilibrio è il filo che lega la tortora e la luna.

Equilibrio è lo scoiattolo aggrappato alla foresta.

Equilibrio è un minuscolo ragno che trasporta perle di rugiada.

Equilibrio è l'uomo che sfiora la farfalla.

MENO DI UN GRAMMO

Il mare era olio quella mattina di luglio. La burrasca del giorno precedente aveva messo a serio rischio la nostra escursione, ma le previsioni meteo ci avevano azzeccato e le condizioni erano perfette per la navigazione. La Planitis, il nostro magnifico caicco bialbero, l’imbarcazione a vela tipica dell’Egeo, ci attendeva al molo. Il capitano Nicolaos, detto Nicos, era al solito imperscrutabile dietro alla barba folta e brizzolata e a quegli occhiali scuri senza i quali l’ho visto solo in un paio di occasioni. Da ormai cinque anni trascorrevo parte della mia estate in Grecia, sull’isola di Alonissos, venti chilometri di rocce, boschi di pini di Aleppo e mare cristallino. Il Parco Nazionale Marino che circonda l’arcipelago delle Sporadi Settentrionali tutela rari tesori, come la foca monaca mediterranea, diverse specie di cetacei e altri organismi marini meno noti come la pinna nobile, il più grande mollusco dei nostri mari o le vaste praterie di posidonia, oasi di vita sui fondali. Come di consueto salii per ultimo sull’imbarcazione, lasciando che i primi a sistemarsi fossero gli ospiti del villaggio vacanze che accompagnavo in qualità di naturalista.

“Kalimera, Nicos, ti kanis? Come va?” E il capitano, con un sorrisino di chi la sa lunga, non riuscendo a nascondere il velato piacere che il primo saluto fosse nella sua lingua: “Kalà, esì? Bene, e tu?” “Kalà kalà, efharistò”. Ecco, pensavo, il mio greco si ferma qui, mi ero già giocato tutte le carte a disposizione. Le altre sarebbero state inappropriate per almeno mezza giornata dato che si trattava di pronunciare buona sera e buona notte. Non era comunque un grosso problema, mi dissi, tanto in quei pochi secondi ci eravamo già scambiati circa la metà di tutte le parole che ci saremmo detti nell’intera giornata. E’ sempre stato di poche parole Nicos, così come Janis, il suo vice. Al contrario Jorgos, il mozzo, era il prototipo del marinaio da locanda: amante del cibo, del bere, delle donne e delle chiacchiere, sempre e rigorosamente in una lingua che era un incrocio maccheronico tra greco, inglese ed italiano. Ad ogni escursione sfoderava una nuova parola in una delle tre lingue, oppure una frase intera, sapientemente miscelata, che diventava l’espressione tormentone della giornata. Una simpatica trovata che in pochi minuti lo faceva identificare dai turisti come il giullare della barca. Un ruolo che non gli dispiaceva affatto, anche se il suo tono scherzoso spariva immediatamente non appena l’ancora si incastrava in qualche scoglio e il capitano lo richiamava bruscamente all’ordine.

La meta di giornata mostrava il suo profilo montuoso e irregolare; Dio Adelphia, i due fratelli, una coppia di piccole isole gemelle separate tra loro da un sottile braccio di mare, tanto che dalla nostra posizione apparivano come un’unica terra. Una mezz’ora di navigazione ci avrebbe condotti in quell’angolo di nulla e roccia, dove osavano solo gabbiani, marangoni - una specie di cormorano - e falchi della regina. Un nulla che consente alla vita marina di prosperare. Avremmo fatto snorkeling e nuotato tra piccole cernie, ricci, stelle di mare e molto altro. Ero seduto a prua, nella mia postazione di avvistamento, le gambe penzoloni sul mare oltre il corrimano, binocolo a tracolla. Non appena avessi adocchiato qualcosa avrei richiamato l’attenzione del capitano e delle persone che accompagnavo, una trentina in quell’occasione. Con un po' di fortuna, anche aiutati dal mare perfetto, durante la traversata avremmo potuto incontrare i delfini, le star che arricchiscono sempre le giornate. Ed invece incontrammo farfalle.

Guardando verso i miei piedi che ciondolavano fuori dalla barca in movimento, notai un puntino colorato sull’acqua, arancione. Non ci feci troppo caso. Ne vidi un altro poco dopo. E un altro. Misi a fuoco gli occhi, attendendo il successivo, che arrivò di lì a pochissimo: un’ala di farfalla! Arancione, anche quella, come le precedenti. E come quelle che vennero dopo, a decine, centinaia. Ali rotte, spezzate, alcune intere; in rari casi la farfalla ancora nelle sue fattezze. Erano passati pochi minuti dal primo avvistamento e faticavo a comprendere cosa potesse essere accaduto. Poi capii. Quelle ali arancioni con strisce nere appartenevano a Vanesse del cardo, una specie di media grandezza molto comune sull’isola, oltre che in Italia. Ma che ci facevano tutte quelle farfalle morte in mare? Mentre ragionavo, il mare restituiva migliaia di pezzetti arancioni, immobili sulla superficie piatta, come appiccicati. Solo l’onda formata dal nostro passaggio faceva oscillare mare e farfalle in un moto tra loro solidale, che le faceva poco dopo tornare esattamente com’erano e dov’erano. Non affondavano, quasi una forza misteriosa facesse da collante tra loro e l’acqua.

Migravano! Le farfalle migravano! Ecco perché stavano attraversando il mare. E così mi tornò in mente uno dei più straordinari accadimenti della natura: la migrazione della Vanessa del cardo.

Inizio primavera, Nord Africa. Qui hanno trascorso l’inverno, in uno stato di semi-ibernazione, milioni di Vanesse del cardo allo stadio adulto. Aggrappate alla corteccia degli alberi, nascoste dentro fessure dei muri, infossate in cavità del terreno, avevano superato la stagione fredda ed ora, coi primi tiepidi raggi di aprile, potevano partire. Il viaggio che le attendeva sarebbe stato faticoso, difficile, epico: quelle farfalle, ciascuna del peso inferiore al grammo, dovevano attraversare il Mar Mediterraneo e raggiungere le coste dell’Europa. Molte migliaia non ce l’avrebbero fatta, proprio come quelle che ora vedevamo galleggiare nell’Egeo, travolte da una tempesta estiva che le aveva colte in mezzo al mare e lì, in quello stesso mare, ne aveva deposto le ali. Il loro ultimo gesto era stato un dono: colore al mare, arancio su blu.

Mi consolava pensare a quante altre, la gran parte, ce l’avesse invece fatta, e fosse in salvo sulla costa. Ora mettevo insieme i pezzi del puzzle: diverse volte, passeggiando sull’isola di prima mattina, mi era capitato di osservare folti gruppi di Vanesse del cardo in alimentazione sui fiori del villaggio. Mentre suggevano avidamente il nettare dai cespugli di lantana camara, tenevano le ali aperte, assetate di luce e sole. Si scaldavano per raggiungere i circa 40 gradi centigradi necessari alla piena efficienza di volo. Verso metà mattina, sazie e fatto il pieno di calore, quelle farfalle, una ad una, si lanciavano verso il mare, in un volo veloce, frenetico, quasi sentissero la fretta di andare. Ma dove? A nord. La mia isola, come tante altre, era solo tappa intermedia per un viaggio più lungo, molto più lungo. Ma come può una farfalla che ha varcato il mare, ora ripartire per raggiungere i Paesi del centro Europa, varcare le Alpi? Sa di non poterlo fare e così affida il testimone ai suoi figli. Le Vanesse del cardo giunte sulle isole o sulle prime coste europee si accoppiano tra loro, depongono milioni di uova e, sfinite, muoiono. Uovo, larva, crisalide, adulto (detto “immagine”): in poche settimane i loro discendenti sono pronti. Per ripartire verso nord. Superano pianure, fiumi, montagne per raggiungere le ricche distese di fiori centro europee. E qui seguono l’esempio dei loro genitori: si riproducono e muoiono. Ma il viaggio non è compiuto, ed i loro figli partiranno nuovamente a coprire la distanza che li separa dalle grandi pianure dell’Europa settentrionale, dove l’estate è breve ma opulenta di fioriture e nettare prelibato. In tre o quattro generazioni, a seconda del meteo stagionale, la Vanessa del cardo lascia le aride terre africane per raggiungere il Nord, nei pressi del Circolo Polare Artico. Magnifico per esseri così piccoli e fragili. Ma l’autunno ormai incombe, settembre lo annuncia con venti freddi e le prime gelate. La Vanessa sa cosa deve fare: fuggire a sud. Così quell’ultima generazione nata in cima all’Europa si alza in aria in direzione equatore e vola. Vola. Vola. Supera le pianure centrali, varca le Alpi (è possibile osservare la migrazione autunnale delle farfalle su alcuni valichi alpini, un’esperienza da brivido), e poi giù lungo lo Stivale, o nella penisola iberica o verso il Bosforo. Davanti a loro il Mediterraneo, mare sconosciuto. Un battito d’ali più vigoroso e via, con il coraggio dell’incoscienza, o forse solo dell’istinto, sopra le onde, a sfidare venti e mareggiate. Le più forti, le più fortunate, giungono così a trascorrere l’inverno nei Paesi del Nord Africa, là dove avevano svernato i loro bis o trisnonni. Riportano a casa storie di viaggi ed un DNA straordinario, che non solo dice loro esattamente dove e quando andare, ma anche quale tratto di strada devono percorrere. Mi spiego meglio. Ognuna di queste farfalle potrebbe nascere in un luogo qualsiasi e quindi davanti a sé potrebbe avere l’Europa centrale o quella settentrionale, oppure le isole, o l’Italia… nonostante questa enorme variabilità, quel singolo individuo sa quanta strada deve fare ed in quale direzione. Il codice genetico fissa alcuni caratteri in modo straordinariamente potente, come il ritorno a casa, ma allo stesso tempo dimostra un’incredibile duttilità nei confronti dell’ambiente, facendosi plastico di fronte alle latitudini ed alle stagioni. In pratica la farfalla viene riprogrammata a seconda del luogo in cui nasce. Le farfalle finalmente giunte in Africa si fermano, ma il loro compito non è finito. Trascorso l’inverno saranno loro a partire nuovamente e volare al di là del Mediterraneo. Solo a questo punto cederanno il passo alla progenie. Quella eroica generazione che percorre tutta l’Europa da nord a sud e sorvola il mare due volte è detta, a buon merito, supergenerazione.

Stavamo rientrando dall'escursione. Avevamo visitato spiagge deserte, scoperto stelle marine, nuotato in acque trasparenti e, forse, visto delfini, non ricordo. Sono passati alcuni anni, la memoria gioca col passato e mescola gli avvenimenti con tante altre navigazioni in quei mari. Ma di quella giornata non potrò mai dimenticare la scia di ali nel mare, quando l'imprevisto incontro con la morte esalta la bellezza della vita.

Alla fine del loro viaggio mi sembrava quasi di aver volato con loro, di aver condiviso le loro fatiche, i pericoli. Ed in parte è vero. Quando osserviamo una Vanessa del cardo che placidamente si nutre su un fiore, siamo testimoni per un istante di qualcosa di primordiale, molto più antico e grande di noi. Siamo parte per un secondo del suo straordinario viaggio di migrazione

SOTTO LA NEVE DI PRIMAVERA

Questa mattina dal cielo bianco cade neve di polistirolo ed un vento gelido spazza da nord. Ma per i piccoli abitanti del giardino è comunque primavera: verzellini, cardellini e cinciallegre cantano senza sosta!

L'EFFIMERA

Erano milioni ed erano puntuali. Per la vita e per la morte. Ru le aspettava da tanto. Il grande lago che fino a poche ore prima era immobile e silenzioso nella quiete della prima estate, adesso cambiava aspetto e brulicava di vita. Emergevano dalla superficie come minuscole sirene a cui il mondo acquatico non bastasse più; volevano l’aria e il cielo. I sottili e fragili corpi, lunghi appena un paio di centimetri e corredati di tre paia di zampette articolate, le cortissime antenne quasi invisibili, le quattro ali trasparenti ripiegate a libro sul dorso, come mani giunte a preghiera. E poi quei due lunghi cerci posteriori, codine esili che si piegano alla minima brezza, tipiche della loro famiglia. Le effimere (per meglio dire gli Efemerotteri), piccoli insetti la cui vita è rubata alla fantasia. Ru lo sapeva, per questo ne era così affascinato; aveva compiuto un lungo viaggio per vederle. Doveva essere puntuale, come loro. Le effimere non aspettano. Da tempo riposavano allo stadio di ninfa - gli insetti compiono diverse metamorfosi nell’arco della loro vita - nelle placide acque del lago. Un lago dalle acque limpide e fresche, circondato da foreste sagge e scure che lo abbracciano quasi a proteggerlo dal mondo rumoroso e inquinato degli uomini. Tre lunghi anni sotto la superficie dell’acqua, nutrendosi di minute particelle di sostanza organica, con paziente costanza. Fino a quel giorno, quel singolo giorno, in cui il mondo subacqueo diventa prigione e solo il cielo è libertà. Un giorno di trasformazione: un debole paio d’ali sufficiente per sollevarsi dalla superficie e librarsi leggere pochi metri sopra il loro vecchio mondo. E lì nell’aria incontrarsi, mischiarsi, creare sciami, caotiche nubi scure che inondano lago e foresta di un ronzio tanto sottile quanto diffuso, fino ad essere frastuono. Ru osservava stupefatto la grandezza di quell’evento, l’enormità dei numeri: decine di milioni di effimere, sincronizzate come il più preciso degli orologi atomici, rispettavano la promessa depositata tre anni prima nelle loro uova e nel loro DNA, ed ora danzavano ebbre di vita, annullando la distanza tra acqua ed aria, ricoprendole senza discontinuità di un mantello nero e fremente. Ogni effimera era in cerca di un compagno, che avrebbe individuato e scelto in quel caos. Si sarebbero riconosciuti, voluti, amati. E sarebbero morti. In poche ore. Era già deciso. Ru era catturato dallo straordinario spettacolo a cui stava assistendo: una volta all’anno, per un solo giorno, milioni di esseri della stessa specie volavano insieme, si univano e morivano. L’indomani della loro frenetica danza restavano solo immobili veli neri sulla superficie dell’acqua e miliardi di microscopiche invisibili uova deposte sul fondo e che tre anni dopo avrebbero ripetuto inconsapevoli quel rito che si compie da milioni di anni, sempre uguale a se stesso, primordiale e magnifico. Tanto è certo lo svolgimento della loro vita che la trasformazione a cui vanno incontro le priva dell’apparato boccale: a che serve mangiare se si vive solo poche ore?

Ru fu assalito da un senso di smarrimento: le effimere, tanto minuscole e fragili al cospetto del mondo, in balìa di vento e correnti, vivono però nella certezza dell’incontro nel tempo. Volano insieme, sanno cosa fare. Non sbagliano mai il momento. Quanto diverse sono le nostre vite dalle loro. Non solo nella forma, ma ancor più nel destino. Le effimere vivono un solo istante, un momento sincronizzato e perfetto.

Mentre nella sua mente prendevano forma questi pensieri, in Ru nasceva quasi invidia per quei piccoli esseri in grado di governare il tempo ed in esso collocarsi con assoluta precisione, senza errore. Noi possiamo vivere decenni e sbagliare sempre il tempo, non incontrarci mai. Ru era lontano adesso, pensava a Tai. Provava vertigine, non trovava il senso. I suoi pensieri sprofondavano nel lago insieme ai milioni di corpi che aveva davanti agli occhi e che avevano compiuto il loro ciclo. Tutto era finito.

Dopo un po' guardò indietro e vide la sua vita, i suoi tempi giusti e quelli sbagliati; i giorni vissuti in volo e quelli di precipizio, quelli gridati e quelli di silenzio.

Effimere. Forse nel loro nome è il senso: effimero è l’istante fugace ed accattivante che racchiude tutto, senza passato né futuro. Ma è anche tempo di illusioni, destinato a svanire senza traccia. Ru adesso iniziava a capire. Effimero è ogni istante, che sia tempo d’uomo, quercia o farfalla. Il senso è quel che lo circonda, la presenza di un prima, che è stato a sua volta effimero, e di un dopo, che lo sarà. È la somma di istanti effimeri a creare un cammino, impronte sulla sabbia. Ru, voltandosi indietro, ne poteva scorgere la traccia. E poteva scegliere, quella possibilità di scelta negata alla seppur meravigliosa esistenza dell’effimera, non padrona, ma schiava del tempo. Che fare? Ripercorrere le stesse orme o inoltrarsi verso nuovi sentieri? Ru guardò davanti a sé. Scelse. Di lì a poco nella terra umida e liscia ai bordi del lago avrebbe lasciato nuove impronte .

SULLA PORTA DI CASA

Domenica mattina scorsa il cielo era grigio e l'aria freschina. Ciononostante, mentre facevo colazione, mi sono accorto che fuori dalla finestra c'era un bel via vai di piccole ali. Così ho preso la fotocamera ed ho iniziato a filmare i passanti: fringuelli, cardellini, verzellini e vari altri ospiti del mio giardino. Ha fatto un giretto anche un gheppio in caccia. Tutto entro pochi metri da casa.

Quasi tutte le specie di questo video sono frequenti anche in città e possono essere osservate dalle finestre e balconi delle vostre abitazioni: bastano un poco di pazienza e di attenzione a non farsi vedere. E poi orecchie aperte, ché spesso gli uccellini si fanno individuare dal canto, soprattutto in questa stagione. Se poi avete a disposizione pure un piccolo binocolo, allora avete tutti gli strumenti per iniziare la vostra carriera da naturalisti!

Bene, siamo pronti: osservate bene e poi, se vi va, cercate gli abitanti alati che passano davanti a casa vostra! Avrete bellissimi e inaspettate sorprese!Buona visione!

STORIA DI UN CASANOVA

Vi devo proprio raccontare cosa mi è accaduto qualche tempo fa.

Finalmente, fine settembre! Era un anno che aspettavo quel momento! Perché? Ognuno nella vita ha i suoi periodi preferiti, la stagione in cui si sente più in forma, pieno di energie. Ecco, per me è l’autunno, quando le foglie iniziano ad ingiallire e di sera la prima brezza entra da nord. Quel frescolino mi agita proprio, mi dà la carica e mi sento come l’incredibile Hulk, anche se non divento verde. Il fisico però ci va vicino, modestamente. Vi chiederete, perché proprio l’autunno? Di solito è la primavera che annuncia novità, colori e nuovi amori. Vabbè, lo ammetto, ma non ridete: in autunno le donzelle si fanno abbordare più facilmente. Casanova io? Beh, diciamo che non mi tiro certo indietro. Non so come spiegarvi, è proprio una questione ormonale. Tu cammini per i fatti tuoi senza pensieri, quando ad un tratto in lontananza la vedi – che poi in realtà ancor prima la senti – e non sai resisterle. Almeno, non so voi, ma io proprio mi innamoro all’istante. Sì, ecco, il classico colpo di fulmine! E quindi mi lancio in un approccio diretto, petto in fuori, sguardo da conquistatore. E mi va quasi sempre bene. A meno che non sia già accompagnata. In quel caso è un bel guaio. Sì perché io, che di solito sono un tipo tranquillo e che sta per i fatti propri, in quei giorni divento un vero attaccabrighe. E poi al cuor non si comanda, no?! Inizia così: prima faccio sentire la mia presenza da lontano; il messaggio è chiaro, levati di torno. E di voce ne ho parecchia, ho un timbro baritonale niente male, che affascina lei e intimorisce lui. Ma se quello non la molla, beh, gli vado incontro senza alcun timore e a quel punto mostro i muscoli. Ebbene sì, come ai vecchi tempi: vediamo chi è più forzuto, chi ha il petto più possente. Se è uno furbetto e capisce l’antifona se ne va e la pupa è mia; se invece fa il duro anche lui, allora sì che se ne vedono delle belle. Botte da orbi! Quando si tratta di donne io non scherzo. Mi preparo tutto l’anno per far colpo su di loro e di certo non basta un bellimbusto per fermarmi. Per non dire di quelle volte che attorno ad una fanciulla ne gironzola più d’uno: a volte, ragazzi, vengono fuori di quelle risse da saloon che non avete idea. Tutti contro tutti, oggetti che volano e, brutto dirlo, ma si arriva anche al sangue e, in rari casi, qualcuno finisce accoppato.

Insomma, vi dicevo: era fine settembre, una bella giornata di sole, ma fresca. Di quelle perfette per trovarsi una fanciulla con cui uscire e poi chissà… mi ero conquistato una bellissima radura tutta mia. Tutt’intorno silenzio, solo un trattore lontano lavorava nei campi. Ma io ero beato al riparo del bosco, ed ero molto molto eccitato. Non si dice? Vabbè, perdonatemi, ormai m’è scappato. Avrei dovuto aspettare il buio, lo so, ché si hanno sempre più chance: l’atmosfera, il vedo-non vedo, il cielo stellato, magari la luna piena… Niente, non ho resistito ed ho iniziato a chiamarla. Una voce bassa, quasi un ruggito, ho lanciato per valli e boschi, con la speranza che mi sentissero tutte le donzelle lì intorno. Volevo mettere in chiaro quanto forte e bello fossi. Lo sono ancora, intendiamoci. Però quel giorno ero davvero al top, un figo! E giù di nuovo a gridare. Qualcuno mi rispondeva da lontano, ma erano altri come me, nessun segno di beltà femminile. Quando ad un tratto un rumore alle mie spalle, vicino, vicinissimo. Un rametto rotto dietro un cespuglio. Sinceramente non capivo bene cosa fosse, se un maschietto eccitato come me o una femminuccia in cerca di compagnia per la serata. Nel dubbio ho dato il meglio: ho iniziato a raspare per terra con la mia corona (ah già, non vi ho detto che son re!), a fregare arbusti e soprattutto ho lanciato un bramito potente direttamente in faccia a… a… a uno strano animale su due zampe tutto vestito di verde che aveva una specie di tubo in mano. Era immobile, ma quel rametto spezzato l’aveva tradito. Ed io l’avevo sgamato. Cavolo, quella volta mi è andata buca!

UNA PASSEGGIATA IN NATURA

Ho la fortuna di vivere in campagna. Così, in questi giorni difficili, vi porto con me a fare una passeggiata nel bosco dietro casa, alla scoperta della vita che si nasconde vicinissima a noi. E mi raccomando, voce bassa e passi leggeri... :-)

Da domani il buio cederà il passo alla luce ed alla primavera; ma oggi è equinozio, quando per un solo giorno notte e dì si equivalgono. Uno dei tanti eventi celesti periodici legati ai moti dei pianeti, alla gravità, a forze tanto immense quanto lontane dal nostro vivere quotidiano e dai nostri pensieri. Ho così voluto dedicare un breve racconto alla grandiosità del cosmo e delle sue leggi, talvolta incomprensibili, ma talmente belle da suscitare brivido e vertigine appena le sfioriamo.

TRA LE STELLE

Ru e Tai erano appoggiati l’uno all’altra e guardavano il cielo, nero, trapunto di stelle. La notte era limpida e silenziosa, solo una lieve brezza s’alzava ogni tanto dalla valle per raggiungerli sulla grande roccia dove sedevano. I loro occhi persi nel buio a contemplare le miriadi di soli della galassia.

Ru: “Vedi, Tai, tutte quelle stelle: migliaia, per noi punti luminosi senza dimensione, ma solo perché lontani: fossimo un raggio di luce impiegheremmo anni per raggiungere le più prossime a noi. Eppure ciò che vediamo ad occhio nudo è solo una minuscola parte dell’universo, un angolo remoto fra innumerevoli altri, frutto della grande esplosione da cui tutto ebbe inizio circa 13 miliardi di anni fa. Siamo alla finestra di casa e ci affacciamo sul nostro giardino, senza esserne padroni, ma solo meravigliati osservatori, bimbi di fronte all’ignoto. Oltre è l’universo, sconosciuto ed immenso.”

Senza distogliere lo sguardo dal cielo, Tai disse: “Mi è sempre piaciuto quando mi racconti di stelle, lune, pianeti lontani; quando mi porti dentro quei mondi, me li mostri coi tuoi occhi di esploratore. Una volta, ricordo, mi dicesti che esiste una nube di stelle simile a quella in cui ci troviamo noi e che si può scorgere nelle serate terse come questa. E’ là che si trova la grande scoperta?”.

Ru si illuminò di sogno: “Sì, è lassù” disse, indicando proprio sopra di loro una minuscola stellina dai contorni vaghi e indefiniti, di una tinta bianca lattiginosa. “Quella, anche se a prima vista può apparirlo, non è una stella. E’ un’altra galassia, proprio come la nostra. In quella minuscola nube sono racchiuse cento e più miliardi di stelle, in gran parte dotate di pianeti e di lune, di comete e asteroidi. Molti di quei sistemi ospitano la vita, anche se diversa da come noi la conosciamo. Pochi giorni fa il grande telescopio orbitante, durante la giornaliera osservazione che va avanti ormai da anni in cerca di mondi e di vita, ha finalmente avuto successo. Stavamo perlustrando la zona periferica di uno dei due grandi bracci di spirale di quella galassia, secondo la procedura stabilita. E lo abbiamo trovato. E’ un piccolo pianeta, insignificante a prima vista, terzo di nove, che ruota attorno ad un sole giallo di media grandezza.”

Tacque per un istante, quanto bastò a Tai per intervenire stupita: “Un sole giallo?! Ma come fa la vita a non bruciare per il calore? A esistere?”

Ru sorrise dolcemente: “E’ questo che ci riesce difficile capire: che la vita non è solo ciò che conosciamo e che viene dalla nostra esperienza, la vita è molto di più. Su quel mondo abbiamo fatto scoperte straordinarie in pochi giorni di osservazione. Tra le migliaia e migliaia di specie che si sono evolute su quel pianeta, alcune minuscole, altre grandissime, ce ne sono molte che possono volare!”

Tai: “Volare!!!???”

Ru: “Sì, e non solo! Molte sono in grado di spostarsi e sopravvivere all’interno di vasti oceani liquidi la cui principale molecola è composta da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Perché su quel pianeta, devi sapere, pare che molte delle creature respirino ossigeno, mentre altre anidride carbonica. Capisci, chi respira ossigeno esiste perché chi respira anidride carbonica produce ossigeno, e viceversa! Non è magnifico!”

Tai, quasi in trans: “Lo è, infatti.”

Ru era completamente assorto e ormai la sua mente volava lassù insieme alle sue scoperte: “Ma non è finita qui. In un continente caldo, circondato da mari e ricco di foreste, abbiamo trovato alcune specie molto interessanti. Vivono in gruppi, sono capaci di costruire oggetti e ripari dove trascorrere la notte; una forma di tecnica, seppur molto arcaica. E comunicano tra loro, in un modo mai visto prima: emettono suoni!”

Tai: “Ma è impossibile comunicare coi suoni, riuscire a trasmettere la complessità del pensiero e l’unicità dei sentimenti senza telepatia.”

Ru: “E’ vero, anch’io mi domandavo come fosse possibile, come riuscissero a capirsi, a non perdere i veri significati durante la trasmissione dei segnali. Poi abbiamo scoperto che non è solo il suono a condurre i messaggi da un individuo all’altro, ma anche i movimenti del corpo, delle mani, le espressioni del viso, il contatto tra due corpi.”

Tai: “Finalmente qualcosa che ci accomuna, il contatto tra due corpi”.

Sorrise e abbracciò Ru con tutte e quattro le braccia di cui disponeva. Ru face altrettanto. Otto braccia si intrecciavano in una notte scura sul pianeta Drom, ma Anna e Luca non lo sapevano, mentre, sdraiati sotto il cielo stellato di primavera, osservavano insieme al nonno quella minuscola nube: la galassia di Andromeda, il più lontano oggetto celeste visibile dalla Terra ad occhio nudo, distante due milioni e mezzo di anni luce. Due milioni e mezzo di anni luce! Quella fioca luce si depositava sulle loro retine dopo un viaggio tra i vuoti spazi interstellari durato due milioni e mezzo di anni. Paradosso di un presente che è passato, un passato remoto: “Nonno, lassù, da qualche parte nella galassia di Andromeda, c’è qualcuno che ci sta guardando?” chiese timidamente Anna.

“Forse sì, gli abitanti di Andromeda.” rispose il nonno con un sorriso lieve, invisibile nel buio della notte.

“Allora noi li salutiamo!” Disse Luca deciso. E senza altre parole, sventolando insieme le manine in su… “Ciao stelle! Ciao abitanti di Andromeda! Ciaooo!”

Ru e Tai si alzarono per dirigersi verso casa, respirando con piacere quel metano tanto puro a quella quota. Il cielo schiariva nei due piccoli soli rossi che stavano ormai sorgendo. Ru si voltò un’ultima volta in direzione della notte che svaniva, con un profondo sospiro malinconico: “Chissà come sarà ora quel pianeta? Sono trascorsi due milioni e mezzo di anni da ciò che abbiamo visto poco fa. Chi lo starà abitando? Quelle specie con una intelligenza in via di sviluppo esisteranno ancora? Avranno scoperto la tecnologia? Staranno esplorando il cielo, guardando verso di noi? Abbiamo grandi telescopi per vedere lontano nell’universo, per superare le distanze, per scoprire i mondi e la vita che ospitano. Ma non esistono occhi, né strumenti per valicare il tempo che ci separa.”

I campi erano silenziosi, il frumento ancora verde cresceva nella campagna di primavera. Anna e Luca tenevano per mano il nonno, mentre passeggiavano lentamente verso casa. Avevano sonno, la notte era ormai fatta. Non ci pensavano già più, i bimbi vivono nel presente. Ma le loro manine alzate, il loro “ciao!”, non erano svaniti, solo trasformati in raggi luminosi e volavano ora alla velocità della luce verso Andromeda e verso Drom, senza sapere se ci sarebbe stato qualcuno a riceverli. Quel messaggio sarebbe arrivato soltanto tra due milioni e mezzo di anni, dopo uno sconosciuto e meraviglioso viaggio tra le stelle. Vertigine di un adesso che è già stato, ma che un giorno sarà.

C’E’ RICCIO E RICCIO

Siamo al mare. Sole, relax, acqua trasparente e… ricci di mare! A molti sarà capitato non solo di vederli o mangiarli (evitiamo, per favore, il loro numero è crollato proprio a causa della raccolta indiscriminata per consumo alimentare), ma anche di calpestarli. Vacanza rovinata: quelle spine sottili, fatte apposta per conficcarsi nella pelle e spezzarsi al suo interno, procurando dolore e spesso infezione, se non adeguatamente curata. Insomma, riccio amore e odio. Ma stiamo attenti a non fare di ogni riccio un fascio (di spine). Se li osserviamo con attenzione, possiamo notare alcuni particolari che ci riveleranno segreti per molti insospettabili.

Innanzitutto, se chiedete a chi i ricci se li mangia direttamente in spiaggia, vi risponderà che vanno presi quelli che hanno una colorazione nero-rossastra, non quelli completamente neri. E già qui si apre un mondo… i primi, quelli con riflessi rossastri, sono chiamati ricci femmina, quelli neri ricci maschi. Ma attenzione! Tutte le specie di ricci sono ermafrodite, ovvero ogni singolo individuo è sia maschio che femmina, quindi quando si parla di ricci femmine (Paracentrotus lividus) e ricci maschi (Arbacia lixula) si intendono (o si dovrebbero intendere) due specie diverse. La prima, quella più prelibata, è quella che contiene più uova e che di conseguenza è stata appellata femmina. In ogni caso, se mettete il piede su un riccio maschio o su un riccio femmina il male sarà lo stesso…

Molto meno dolore vi procurerà invece un altro riccio, meno diffuso degli altri ed anche meno appariscente, proprio perché fa del nascondersi una sua arma. E’ il riccio di prateria (Sphaerechinus granularis, in foto), dalla forma leggermente più schiacciata rispetto agli altri due, dotato di aculei meno appuntiti, più corti e quasi sempre con le punte chiare, biancastre. Il riccio di prateria ha un’abitudine molto particolare: raccoglie dal fondo reperti marini come conchiglie, alghe, sassi che dispone sul suo corpo in modo da confondersi con l’ambiente circostante, oltre che per rendersi maggiormente indigesto ad un predatore che volesse banchettare con lui.

Sul fondo del mare ci sono molti altre specie simili ed imparentate ai ricci appena descritti, come lo spatangio o il riccio saetta, tutti animali (perché i ricci sono animali) con proprie caratteristiche e straordinari adattamenti… ma per ora ci fermiamo qui.

TRATTENENDO IL RESPIRO

Più che una storia è una nuotata con gli occhi sott'acqua. Nel mare costiero dell'isola di Alonissos (Grecia), dove le onde si infrangono senza rabbia, appoggiandosi agli scogli saggi e pazienti. Loro ne hanno viste di mareggiate invernali, ma non oggi, in questa calda e ferma giornata d'estate. Il fragore del mare arriva attutito alle orecchie immerse sotto la superficie. Lì dentro al blu, dove i suoni vengono rinchiusi in una bolla morbida e trasparente e cambiano di tonalità, divenendo eterei e rallentati. Ecco, in quel mondo di silenzio che sempre oscilla tra la marea e la risacca, mille vite nascono, esistono, muoiono: chi aggrappato alle rocce, chi sempre a zonzo, chi vestito di colori sgargianti e chi di pietre, ognuno adattato al suo ambiente, che sia fondale di roccia, sabbia o mare aperto. Qui si intrecciano tante storie quante sono le gocce dell'oceano, ed ogni istante è bellezza e scoperta.

Una stella serpentina, con disco centrale piccolo e braccia lunghe e sottili. E l'interno madreperlaceo di un orecchio di mare, parente delle chioccioline.

Il verme di fuoco è urticante ed i suoi colori sgargianti ci avvertono del pericolo. Una pinna nobile, il più grande bivalve del Mediterrano, si nutre con le correnti.

Colonie di madrepore, parenti dei coralli, sul fondo del mare. Una piccola cernia bruna nuota lenta: diventarà un grande e placido predatore di oltre un metro!

Gli ombrellini di mare oscillano tra le onde: ogni singolo ombrellino è un'unica alga unicellulare! La posidonia al contrario non è un'alga, ma una pianta marina!

Lo sciarrano scriba si muove lento. Il nome ricorda la vermicolatura sul muso, quasi fosse una scrittura antica. Una seppia è quasi invisibile contro la sabbia.

Uno spatango, particolare riccio di mare, è morto e riposa sul fondale; il suo endoscheletro ricorda la parentela con le stelle marine. Un polpo si nasconde.

L'oloturia è stata disturbata ed ha così rilasciato i suoi filamenti appiccicosi per allontanare il pericolo. Poi una stella rossa (questa poco rossa in realtà).

La triglia di scoglio setaccia il fondale con i suoi barbigli mentre un banco di piccole salpe si muove all'unisono.

Il maschio di donzella pavonina sfoggia i suoi colori brillanti. Intanto due saraghi, uno sparaglione ed uno fasciato (quello con due strisce ), gironzolano insieme.

La martasteria, la più grande stella marina del Mediterraneo. Più in là una donzella esplora gli scogli in cerca di qualcosa da smangiucchiare.

Una piccola bavosa si mimetizza tra scogli e alghe del suo medesimo colore, mentre una stella spinosa minore è placida sul fondo sabbioso.

Una castagnola fluttua nella colonna d'acqua. E quei minuscoli pesciolini blu elettrico? Sono i piccoli della sua stessa specie. Crescendo cambieranno colore.

La spugna verongia sembra una piccola città di comignoli appoggiata sul fondo. Intanto la flabellina rosa, un piccolonudibranco sessile, ondeggia nella risacca.

Il capone gallinella si muove lento sul fondale. Un pericolo! Ed ecco che apre a ventaglio le sue meravigliose pinne pettorali per spaventare il predatore.

C'E' UNA TIGRE NEI CAMPI

Metti un tardo pomeriggio di fine estate. Cammini in campagna, dove la pianura incontra la collina, tra campi gialli di frumento tagliato e basse siepi ombrose di biancospino e prugnolo. La strada sterrata è polverosa e silenziosa, mentre il sole si abbassa arrossando il cielo. Un luogo diverso dagli altri attira il nostro sguardo: è un prato incolto, abbandonato da almeno un paio d’anni. Uno di quei posti schifati dalla gran parte delle persone perché caotici, disordinati: erba alta quasi al petto, cespugli qua e là, di cui molti spinosi. E poi chissà quali creature pericolose si nascondono là dentro, in quell’intrico di sterpaglie: serpenti, zecche, insetti che pungono e succhiano il sangue… ma nessuno penserebbe mai che là in mezzo, immobile in attesa della preda, attenda una tigre! Sì sì, proprio una tigre!

Prendiamo un poco di coraggio, tiriamoci su i calzettoni (se abbiamo i pantaloni lunghi molto meglio) e pian piano inoltriamoci in quel mondo sconosciuto e imprevedibile. Ad ogni passo il salto di una cavalletta, il breve volo senza direzione di una mantide, la fuga ronzante di un’ape. Muoviamoci lentamente per notare ogni minimo segno di vita, ogni creatura che sembrava non esserci ed invece c’è; prestiamo attenzione a non calpestare i coleotteri che corrono sul terreno, le gallerie scavate dalle talpe che si intravedono nel fitto dell’erba secca. Eccola, la tigre! Il suo corpo immobile, giallo, disegnato di sottili strisce nere. E’ come sempre in attesa che la preda vada da lei, non ha fretta, è regina di pazienza. Le sue otto zampe si appoggiano lievi alla tela che lei stessa ha tessuto e su cui finiscono ignare le sue vittime: api, cavallette, mosche. Una trappola di seta tra i fiori di campo, un inganno che è esso stesso poesia di fine estate. L’Argiope bruennichi, detta anche ragno tigre o ragno vespa per la livrea del suo addome che ricorda quella del felino, è un piccolo abitante delle nostre campagne, le cui dimensioni vanno dai 2 ai 5 cm, zampe comprese. Non ne siamo consapevoli, ma è un nostro alleato poiché cattura piccoli insetti spesso dannosi all’agricoltura e fastidiosi per noi. Purtroppo anche lei, come moltissimi altri minuscoli animali, è oggi in diminuzione senza che nessuno lo sappia: sta sparendo il suo habitat, soprattutto prati incolti e margini dei campi, dato che l’agricoltura intensiva sfrutta ogni metro quadro disponibile; i bordi dei fossi vengono sfalciati costantemente, gli arbusteti abbattuti perché creano confusione alla vista, disturbano l’ordine consolidato. Fortunatamente la nostra piccola tigre è tosta, come tutte le signorine… eh sì, perché l’Argiope bruennichi è donna, almeno gli individui che osserviamo con più facilità al centro della loro grande ragnatela. Il maschietto esiste, ma molto più piccolo, dall’addome minuto e dal colore scuro, senza strisce. Fa vita nascosta e si presenta solo in occasione dell’accoppiamento, momento assai rischioso per lui: se dopo la copula non si mette rapidamente al sicuro, la compagna spesso finisce per mangiarselo. Credevate fosse un’esclusiva di mantidi ed esseri umani, vero?!

Stiamo osservando il nostro ragno tigre in silenzio da alcuni minuti, quando improvvisamente un nostro gesto di troppo lo mette in allarme. Immediatamente il ragno comincia a vibrare sulla tela la quale prende tutta insieme lo stesso movimento, creando una rapida oscillazione. L’Argiope si sente minacciata e questa è la sua arma, un tentativo di mettere in fuga quello che per lei è un potenziale predatore, un pericolo. Dopo una ventina di secondi l’oscillazione si ferma. Siamo stati bravi: siamo rimasti immobili, non ci siamo spaventati facendo gesti di timore, così il ragno ha smesso di percepire un pericolo. Se avessimo continuato a muoverci, di lì a poco sarebbe fuggito al bordo della tela, rifugiandosi dietro una foglia in attesa di tempi migliori. E’ arrivato il momento di andare. Con cura e delicatezza facciamo qualche passo indietro; senza disturbare oltre e con passi silenziosi torniamo sulla nostra via, lasciando la piccola tigre alla sua paziente caccia d’attesa, in quel prato di sterpaglie che si è rivelato non meno vivo e ignoto di una giungla tropicale.

LUPI

Era inizio settembre di due anni fa e da una decina di giorni avevo scoperto dove si trovasse il loro sito di rendez-vous, l’area ristretta in cui i genitori scelgono di lasciare i cuccioli mentre loro sono a caccia. Lupi. Il rendez-vous è solitamente un luogo nascosto, difficilmente accessibile, in cui i lupetti sono al sicuro da eventuali predatori e dal disturbo provocato dall’uomo, anche se non di rado case e paesi non distano più di qualche centinaio di metri. Nella maggior parte dei casi le persone non si accorgono minimamente della presenza dei lupi e men che meno del sito di rendez-vous. I lupi sono fantasmi dai passi leggeri, loro compagni il silenzio ed il buio. Dicevo, avevo individuato dove si trovassero i cuccioli, li avevo intravisti un paio di volte a distanza, nel fitto della boscaglia secca di fine estate. L’erba altissima nascondeva quasi completamente un lupetto di quattro mesi, quindi le apparizioni erano fugaci e imprevedibili. Avevo studiato con attenzione la zona, che già ben conoscevo, con l’obiettivo di trovare uno spazio aperto nelle vicinanze che consentisse un’osservazione migliore e più prolungata, ma che al contempo garantisse di non essere percepito dal branco. La prima regola che mi sono sempre dato è quella di non disturbare gli animali, a qualunque specie appartengano: non è etico, e poi non proverei nessun piacere nell’osservare la fuga, oppure un soggetto stressato dalla mia presenza. L’avvistamento più bello è quando sono lì senza esserci, quando tutto scorre senza il mio respiro, senza il suono dei miei passi.

Avevo quindi deciso di provare ad appostarmi nell’unica area che consentisse un’ampia visuale ma che al contempo offrisse cespugli fitti dietro cui nascondersi: lo specchio d’acqua. Andai prima dell’alba, muovendomi al rallentatore per limitare qualsiasi rumore. Mi sedetti e aspettai, coperto dai rami bassi e dall’erba alta. Quando fu luce alcuni uccelli acquatici mi fecero compagnia, qualche pantana e piro-piro; un paio di aironi. Nessun lupo. Tornai il giorno seguente, sempre con l’oscurità. Gli attori erano i medesimi, con l’aggiunta di un piccolo stormo di pavoncelle. L’alba, il momento migliore, era passata ormai da un paio d’ore e con essa le probabilità di osservazione. Rimanevo immobile, il silenzio è tutto, insieme alla pazienza. D’un tratto nella luce intensa di metà mattina un puntino si muoveva lontano, ai margini della boscaglia dalla parte opposta rispetto a me, a circa 300 metri. Rapido ma con delicatezza, misi subito il binocolo agli occhi. Un lupo! Un cucciolo. Si capiva immediatamente dal corpo esile, l’andatura svagata e curiosa. Si spostava lento verso l’acqua e verso di me. E non era solo. Un altro lupetto lo seguiva ad una ventina di metri di distanza, sugli stessi passi. Arrivati sul bordo dell’acqua iniziarono ad annusarla e dopo poco a berla. Come avessero fatto il pieno di pura energia, iniziarono tutto d’un tratto ad accelerare i movimenti; quelli che erano passi lenti divennero scatti ed inseguimenti, e poi tuffi in acqua, giochi, corse. Da lupi erano tornati cuccioli, ed erano diventati tre! Due grigiastri, uno più rossiccio. Il demone della giovinezza di era impossessato di loro e li faceva correre all’impazzata e saltare ad ogni tuffo, ad ogni nuotata. Stavo vedendo dei lupi che nuotavano! L’unica cosa di cui mi rendevo conto, tra una foto e l’altra, era che stavo assistendo ad uno spettacolo concesso a pochi, che forse non mi sarebbe mai più capitato, ma che non importava perché intanto ero lì, sentivo l’unicità del momento, il privilegio che mi era stato riservato. Nel loro gioco sfrenato i lupetti intanto si erano avvicinati, ormai erano ad un centinaio di metri, poi ancora meno. Scattavo pochissime foto, nel timore che il “click” potesse essere percepito dalle loro grandi orecchie, ma erano troppo presi dalle loro scoperte, catturati dalle novità del mondo intorno. Presero ad infilarsi nella boscaglia, l’acqua non bastava più. Entravano ed uscivano da sentieri nel fitto che loro soli vedevano, impossibili ad un uomo, perfino strisciando. Si inseguivano e sembrava si sfidassero a chi avrebbe trovato il giocattolo più bello, per poi mostrarlo agli altri, fiero. Fino a che uno di loro, il “Rosso” (l’ho poi chiamato così per ovvi motivi), se ne uscì dalla macchia con la preda… un’enorme tartaruga palustre americana! La teneva ferma in bocca: cucciolo, ma con stretta di lupo. Mi sentii per un istante in difficoltà di fronte alla probabile imminente morte della preda… ma presto mi rilassai: erano solo carapace e piastrone, in sostanza lo scheletro della tartaruga, già morta in precedenza. Era un gioco perfetto da mordicchiare, portare a spasso, lanciare, annusare. E così fu per qualche minuto, quando anche quello diventò un esercizio noioso. E allora via di nuovo come il vento tra sassi e schizzi di fango, ad inseguirsi scambiandosi di continuo i ruoli. Ormai erano nuovamente lontani, là dove il bosco me li aveva mostrati e dove ora se li riprendeva. In un attimo erano tornati ad essere lupi misteriosi e invisibili, erano tornati fantasmi.

Dopo alcuni minuti di immobilità e silenzio assoluti, guardai i dati della prima e dell’ultima fotografia scattate: la scena a cui avevo assistito era durata 45 minuti, dentro di me solo un istante. Scherzi da adrenalina. Nelle settimane seguenti li vidi altre volte e scoprii che i cuccioli erano sei; osservai in un’occasione anche la coppia di genitori, poi battezzati Vincenzo e Rossella… ma queste sono altre storie. Ancora oggi, a distanza di quasi due anni, per lavoro e per passione seguo le vicende della famiglia di lupi che ho conosciuto quel giorno. Ho avuto la possibilità di avvistarli altre volte, di scoprire la nuova cucciolata, di entrare un poco nella loro vita quotidiana, ma anche di fare i conti più volte con la morte di componenti del branco, purtroppo sempre per causa umana. Nonostante abbia visto i lupi diverse volte, sia prima che dopo quella mattina, il ricordo di quell’incontro, di quelle tre schegge impazzite di vita, figlie di acqua e di bosco, mi è rimasto dentro come un dono di natura tra i più unici e selvaggi. Non ho mai pubblicato prima foto di quei momenti, né descrizioni, forse per timore di svegliarmi da quel sogno, di infrangerne la magia. Ma in fondo il senso di ogni cosa è condividerne bellezza.

IL COLORE DEL GIORNO

Sono fortunato. Vivo in campagna, tutt’intorno è colori e silenzio. I suoni che ascolto sono quelli che ho scelto: il canto della capinera, il grido della civetta, il fruscio del vento. In questo tempo di casa, la mia casa è anche campi e prati, un boschetto fiorito, un laghetto di rane e rospi smeraldini in concerto. Ogni passo è lento, ritmato, lieve sulla terra o sull’erba alta e umida, in cerca. Mi fermo spesso ad ascoltare ed osservare: l’immobilità blocca il sistema ed evidenzia i dettagli, altrimenti confusi nel mondo che si muove e che parla senza sosta con mille voci. Ogni angolo è noto e ignoto ogni giorno. L’esplorazione è il senso.

Questa mattina ero in fondo alla collina, dove il prato si appoggia al boschetto buio di sambuchi. Il sole già alto, gli steli verdi e sottili alle ginocchia nella primavera d’anticipo. Uniche compagnie il silenzio domenicale, il cielo azzurro. E lì in fondo una macchia gialla, un cespuglio di fiori di comunissima rapa selvatica. Mi avvicino senza fretta: il ronzio diffuso e inconfondibile dei primi tiepidi giorni di volo. Api. Le bottinatrici sono al lavoro: hanno da poco lasciato l’accogliente rifugio dell’arnia in cerca di tesori, che raccolgono sorvolando i campi per riempire corpo e sacche. Che fortuna dev’essere volare in cerca di mille petali colorati, suggere succhi di nettare zuccherino, ricoprirsi di polline dorato. Una vita ad inseguire fiori sconosciuti che sono nutrimento per sé, per la regina, per le innumerevoli sorelle; ed ogni giorno scegliere un colore diverso. Sì perché ogni alba è per l’ape un fiore nuovo, un nuovo colore. Credo le api nel loro girovagare si compiacciano della loro esistenza, ne godano ogni istante l’essenza, l’armonia, la pienezza. Amano certamente (come biasimarle!) riempire la loro fitta peluria di polvere di polline, infilare il capo dai grandi occhi nella profonda corolla di una campanula blu, affondare tra gli stami di un papavero carminio… Vivere nei fiori, esserne orgoglioso ed essenziale ronzio di impollinazione. Le ho osservate e ascoltate a lungo questa mattina, impegnate nel loro sforzo quotidiano. Quella che appare faticosa routine è in realtà continua scoperta. Ad ogni nuova alba l’ape non sa chefiore troverà, di quale tinta si vestirà la sua giornata. Oggi è uno dei suoi 30-40 giorni, tanto dura la sua vita. Forse breve, ma ricca di colori e sorprese. Oggi è dipinta di giallo.

CERVELLI IN FUGA

I nostri mari si stanno impoverendo. Non solo la pesca eccessiva pesa sugli stock ittici, ma molte altre creature di tutti i gruppi sistematici stanno subendo forti pressioni da parte nostra e vanno sparendo: coralli, echinodermi (ricci e stelle di mare), così come crostacei (aragoste, granchi e gamberi) e molluschi (calamari, seppie, conchiglie in genere). Però per accorgersi di ciò che sta scomparendo bisogna mettere la testa sott’acqua là dove ancora il mare è vivo e sano. Non serve andare nel Mar Rosso o in altri oceani caraibici: quelli sono habitat ricchissimi di vita, ma diversi dal Mediterraneo; dunque non ne avremmo un confronto reale. Nel nostro mare esistono ancora angoli intatti, solitamente in luoghi remoti e dimenticati dal turismo di massa: io ne ebbi per la prima volta contezza quando mi immersi nell’Egeo, nel mare limpido dell’arcipelago delle Sporadi Settentrionali. Ad attirare la mia attenzione in quel blu non tanto i banchi di pesci argentei e nemmeno colorate stelle marine, ma qualcosa che mai prima avevo osservato: strane strutture tondeggianti, all’incirca delle dimensioni di un pallone, di colore nero opaco, aggrappate al fondale roccioso. Non assomigliavano a nulla che avessi già incontrato nella mia pur scarsissima esperienza marina. Mi incuriosivano quei grossi cervelloni (sì perché sembravano proprio dei gangli cerebrali), fissi sugli scogli a partire dai 3-4 metri di profondità. Ne scelsi uno e mi immersi, andando giù di qualche metro. Mi avvicinai, trattenendo il respiro, fino a poterne osservare i dettagli. Era cosparso di minuscoli puntini e di piccole concavità delle dimensioni di una goccia d’acqua. Non capivo ancora. E’ buona regola in natura, e soprattutto in acqua, mai toccare gli organismi, e ancor più ciò che è sconosciuto: ma decisi di infrangere quel codice (giovani naturalisti non prendetemi ad esempio). Sfiorai il cervellone nero, poi lo premetti delicatamente. Le dita affondavano di pochi millimetri in quel corpo soffice, morbido, che poi con movimento elastico restituiva la lieve pressione impressa. Riemersi con stupore e ancora bagnato corsi a prendere il manuale tascabile sugli invertebrati marini di cui disponevo nel piccolo ufficio. Volevo la prova di ciò che sospettavo, ed eccola. Quei cervelloni neri, presenza costante e discreta lungo le coste dell’isola, erano spugne. Non una specie sconosciuta o strana, la Spugna comune (Spongia officinalis), proprio quella di cui gran parte di noi fa uso sotto la doccia o nella vasca ad bagno. Nei pochi tratti di costa in cui le spugne sono ancora abbondanti si possono trovare spiaggiate, trascinate sulla battigia da violente mareggiate. Qui, una volta morte e seccate, assumono un aspetto a noi più familiare: colore giallo-verdastro, una consistenza più rigida, ma pronta ad imbibirsi d’acqua appena a contatto col liquido. Tra me e me un sorriso amaro: Spugna comune. Lo era un tempo, nei nostri mari. Oggi sparita quasi ovunque per la raccolta martellante e prolungata per decenni. Un’altra fuga di cervelli.

FARFALLE IN TESTACODA

Svolazzano su prati e campi delle nostre campagne; alcune arrivano fino in città, nei grandi giardini o addirittura sui balconi. Le chiamiamo semplicemente farfalle, ma centinaia sono le specie diverse che abitano il nostro Paese: piccole come un’unghia, grandi quasi come un uccellino, dal volo lento e placido, oppure velocissime quasi fossero in ritardo ad un appuntamento; scure per confondersi tra le foglie o dai colori sgargianti ed ammalianti. Ce n’è per tutti i gusti. Ed allora la prossima volta che incontreremo una farfalla, osserviamola con pazienza ed aspettiamo che si posi. Proviamo ad avvicinarci lentamente, facendo attenzione a non proiettare la nostra ombra allungata su di lei, la spaventeremmo. Fermiamoci a qualche metro: se abbiamo un binocolo o una fotocamera potremo gustarcela a fondo nelle sue forme e colori unici. Nella nostra scoperta del mondo delle farfalle, non sarà difficile incontrare individui appartenenti a due specie comuni, ma allo stesso tempo tra le più belle ed appariscenti: il Macaone ed il Podalirio. Sono farfalle grandi, dai colori contrastati: le ali dallo sfondo bianco-giallastro sono percorse da una fitta rete di linee e disegni scuri, quasi ricamati; e soprattutto portano delle bellissime lunghe code. Potremmo pensare si tratti di un ornamento, ma la loro funzione principale è ben diversa. Sentite qui.

Qualche estate fa mi trovavo in Grecia, sull’isola di Alonissos, e durante un’escursione nell’entroterra il nostro gruppetto si fermò ad osservare e fotografare un magnifico Podalirio che suggeva nettare dai fiori di un arbusto di timo. La farfalla si spostava da un rametto all’altro con grazia, ignara, come anche noi, che su un fiore si stesse nascondendo, perfettamente mimetizzato, un ragno granchio, un piccolo ragno che preda all’agguato senza l’aiuto di ragnatele. La farfalla capitò proprio su quel fiore ed il ragno attaccò: la lotta durò pochi secondi, in cui la preda si dibatteva freneticamente, mentre il ragno stringeva i suoi cheliceri (piccole tenaglie che gli aracnidi usano per predare) sulla farfalla. Un istante di esitazione e il Podalirio riuscì a volare via, alto, allontanandosi velocemente dal cespuglio e dallo spavento. Ma cosa c’entra questo racconto con le code della farfalla? Guardammo il ragno granchio, rimasto a bocca asciutta: tra i suoi cheliceri stringeva entrambe le code del Podalirio, strappate dalle ali. Alla farfalla era andata bene, ma non era certo un caso! Le piccole code, poste agli antipodi del capo della farfalla, hanno la funzione di simulare un paio di antenne simile a quello della testa. L’inganno è amplificato anche da alcune piccole macchie colorate che assomigliano ad un finto occhio poste in prossimità delle codine. Così il predatore è indotto a sbagliare: quando cercherà di predare, lo farà attaccando le parti vitali della farfalla, ovvero la testa. Ma se di teste ce ne sono due, di cui una ovviamente finta, c’è la possibilità che il predatore si concentri su quella finta e che la farfalla possa volare via. Senza code, ma viva. Farfalle in testacoda.

Un Macaone (Papilio machaon) sugge nettare dai fiori di Lantana camara. Codine e macchia rossa ocellare simulano un "seconda testa".

Un Podalirio (Iphiclides podalirius) ha sacrificato una coda ad un predatore. La funzione di volo non è compromessa dalla perdita delle code.

UNA QUESTIONE DI SESSO

E' luglio 2016. Ormai da alcuni anni trascorro una parte dell'estate in Grecia, su un'isola dell'arcipelago delle Sporadi. Alonissos è un luogo magnifico: al mare trasparente ed all'ospitalità ellenica, si aggiunge il silenzio dell'entroterra, la forza ancora selvaggia della natura in gran parte incontaminata. L'assenza di aeroporto e la relativa difficoltà per raggiungerla hanno consentito ai suoi 20 km di lunghezza (circa 130 kmq) di mantenersi in gran parte integri, fuori dal turismo di massa. I 2700 abitanti dell'isola vivono di turismo slow durante l'estate e di pesca in inverno, soprattutto quella al tonno. La presenza del Parco Nazionale Marino tutela ambienti e creature uniche al mondo, come la Foca monaca mediterranea, il Falco della Regina, diverse specie di cetacei e molto altro. Ma per queste verranno altre storie...

Lavoro nell'unico villaggio turistico dell'isola, svolgendo il ruolo di biowatcher: guido gli ospiti in escursioni sia in mare che sulla terraferma, tengo ogni sera presentazioni sulla natura dell'isola, sono a disposizione delle persone per curiosità e domande. Un naturalista in un luogo dove la natura è così viva; ci dovrebbe essere più spesso per poterla trasmettere a tutti.

Ma perché questo titolo? Cosa c'entra il sesso? Bene, guardate queste due immagini riprese nel Mar Egeo, lungo le coste di Alonissos, in quel luglio di alcuni anni fa. Ritraggono una femmina (a sinistra) ed un maschio della stessa specie, chiamata Donzella pavonina (Thalassoma pavo). La Donzella pavonina è un piccolo pesce diffuso nelle aree costiere del Mediterraneo che raggiunge al massimo i 25 cm di lunghezza; le femmine sono più piccole dei maschi e presentano una colorazione meno brillante, soprattutto nel blu della testa. Inoltre hanno alcune strisce verticali assenti nel maschio, che ne ha solo una più vistosa vicina al capo. Anche qui tutto normale: quante specie animali sono testimoni di quello che viene definito "dimorfismo sessuale", ovvero di una evidente differenza esteriore tra i due sessi? Moltissime, dagli insetti agli uccelli, dagli anfibi ai mammiferi. Ma molti pesci, tra cui la nostra Donzella pavonina, hanno raggiunto una tappa evolutiva molto particolare, rispondendo in modo efficace ad un dilemma che da sempre affligge le specie (spesso anche la nostra!): meglio essere femmina o maschio? Per l'essere umano è ovviamente questione di punti di vista... ma occupandoci di convenienza in termini di successo riproduttivo, che è poi il vero metro di risposta per ciascuna specie, a quale sesso converrà appartenere? Una Donzella potrebbe fare questo ragionamento: se sono maschio posso potenzialmente avere accesso a tante femmine e, di conseguenza, con poco sforzo avere una numerosissima progenie; certo che però mi tocca competere con altri maschi, quindi se voglio vincere devo essere grande e forte. Forse allora è meglio essere femmina: anche se sono piccola e debole, un maschietto che mi vuole lo trovo di sicuro perché io porto le uova, la più grande ricchezza per gli abitanti del mare. L'amletico dubbio rimane... ma la Donzella ha trovato una risposta molto efficace. Tutte le Donzelle pavonine nascono femmine: età e taglia ridotte non sono un problema per riprodursi, non serve combattere e primeggiare, qualcuno che mi vuole lo trovo sempre. Ma quando i pesci crescono di dimensioni con l'età, ecco che a questo punto anche fare il maschietto non è male, potendo competere con gli altri maschi con buone chance di successo. In altre parole, da piccole le Donzelle sono femmine, da grandi diventano maschi, trasformando sotto spinte ormonali sia il loro apparato riproduttivo che l'aspetto esteriore (il fenotipo). In termini tecnici questa trasformazione è detta ermafroditismo proterogino, ma possiamo semplicemente dire che sia una soluzione efficace ad una questione di sesso...

ALI SULLA LUNA

Aprile è il mese del loro ritorno, sono vicini ormai. Stanno salutando l'Africa meridionale, che li ha ospitati per tutto l'autunno e l'inverno, e stanno dirigendo il loro minuscolo becco verso di noi. I Rondoni, probabilmente le creature alate meglio adattate al volo sull'intero pianeta, tra poche settimane solcheranno nuovamente i cieli d'Europa, sfrecciando tra tetti e palazzi, gridando durante gli inseguimenti di gruppo che rallegrano paesi e città. Basta aprire la finestra per sentire le loro voci che all'alba e al tramonto inondano come una grande volta chiassosa le nostre teste. Ci sarebbero mille cose da raccontare sui rondoni: la forma delle loro ali, cosa mangiano, dove fanno il nido... ma un altro è certamente il loro più grande segreto. Fate così: una sera di fine primavera, quando i rondoni volteggiano sopra le case e il buio è ormai prossimo, seguiteli con lo sguardo, non lasciateli andare. Li vedrete alzarsi, sempre più in alto, e diventare puntini, mentre le loro grida saranno echi lontani. E' buio ormai, torneranno verso i palazzi ed i loro nidi per riposarsi e passare la notte, dopo un'intera giornata di volo? Non scendono ancora, eppure ormai non si vedono più; anche le grida si sono spente. Ma dei rondoni nessuna traccia: non sono sui tetti delle case, né nelle fessure dei palazzi e nemmeno tra le tegole o fra i coppi. Dove sono i rondoni, quelle migliaia di ali che solcavano il cielo della sera poco fa? Svaniti nel nulla? No, sono ancora in cielo, ancora in volo! Solo pochi anni fa si è avuta la certezza che i rondoni non fanno come gli altri uccelli che la sera trovano un posatoio dove trascorrere la notte a riposo ed al riparo dai predatori; i rondoni prendono invece quota e salgono a centinaia e centinaia di metri di altezza, poi si lasciano scivolare a spirale verso il basso, planando con le loro formidabili ali falcate, ed intanto "spengono" una parte del loro cervello, riuscendo con l'altra a mantenere l'assetto di volo. Scesi verso terra riguadagnano quota e ricomincia la discesa a spirale, e poi ancora, e ancora. Fino al mattino. Il rondone vive in volo. Alcuni piccoli dispositivi satellitari applicati a rondoni hanno dimostrato che possono rimanere in aria fino a 8-10 mesi consecutivi. Senza mai posarsi. E probabilmente i record sono assai più estremi. Però mi piace pensare che qualcuno di loro, nelle tiepide sere d'estate vada a dormire sulla luna.

UNA GOCCIA D'ACQUA

Isola di Ponza, aprile 2016. Mi trovo qui con amici per partecipare alcuni giorni ad un campo di inanellamento a scopo scientifico: l'attività, coordinata dai ISPRA (Istituto Superiore di Protezione e Ricerca Ambientale) ha come obiettivo la cattura di piccoli uccelli ed il loro immediato rilascio per lo studio delle migrazioni. Il progetto "Piccole Isole" prevede che nei mesi primaverili, nel corso della migrazione che porta miliardi di piccoli passeriformi dall'Africa all'Europa, vengano organizzate su diverse isole italiane delle stazioni di inanellamento: personale autorizzato e formato, dotato di reti "foschia", quasi invisibili agli uccelli, cattura i piccoletti senza procurare traumi, esegue le misurazioni necessarie, applica alla zampetta un anellino di riconoscimento (una sorta di targa unica al mondo e riconoscibile ovunque quel piccolo animale venisse ritrovato) e subito li lascia andare per la loro strada. In questo modo negli anni si è imparato a conoscere quali rotte percorrono le diverse specie, in quanto tempo, quali sono i siti che è più importante tutelare, e molto altro. Si studia per conservare.

Il lavoro va avanti dall'alba al tramonto, in certe giornate di grande passo senza sosta, e si maneggiano centinaia di uccellini. Nei pochi momenti liberi si passeggia, si gode il paesaggio, la primavera che è già viva e forte sul mare. E si fanno incontri. Con gli isolani, certamente, ma soprattutto con chi in quei giorni è di ospite di passaggio. Migliaia di piccoli uccelli affollano la macchia mediterranea, assaltano i primi fichi maturi; ogni cespuglio ha un suo abitante temporaneo che riposa e si nutre, in attesa di ripartire. Attende la notte, come quasi tutti i piccoli migratori: è più sicura e più fresca, la via sul mare comunque visibile anche col buio. Può così capitare di notare con lo sguardo un rapido movimento su uno stelo sottile: un minuscolo Luì verde, meno di 10 grammi di peso, si aggrappa con le zampette a stuzzicadenti e becchetta invisibile nutrimento. E' partito dall'Africa centrale, dalle fitte foreste del Congo, per raggiungere le faggete europee. Ha attraversato il deserto del Sahara, il mar Mediterraneo, esausto ha sostato sull'isola, stazione di rifornimento. Ha fame e sete, sta consumando le riserve di grasso accumulate ed anche la massa muscolare (sì, gli uccelli possono farlo, proprio come adattamento agli enormi sforzi della migrazione). Si allunga e col becco appuntito raccoglie una goccia di rugiada, regalo dell'umida notte appena trascorsa. Una sola goccia può salvargli la vita. Non è raro sulle isole osservare piccoli uccelli nutrirsi di cibi inaspettati; spesso per esempio i bordi del becco portano segni di polline, strappato ai fiori come l'uccellinosi sentisse ape. Ogni anno si stima che circa 5 miliardi di uccelli trasvolino dall'Africa all'Europa e viceversa, in un volo silenzioso, spesso per noi impercettibile, ma grandioso nella sua immancabile promessa.

© Copyright Emanuele Fior